Gli “spitina ri carni”, il mercato del contadino ed una storia inventata lì per lì.

Ieri ho mangiato i miei “spitina ri carni” preferiti.

A Palermo con il termine “spitina” si intendono gli involtini di carne ripieni, impanati, infilati in uno spiedino di bambù  e arrostiti, un piatto profumato di alloro, che nasce dal nostro tipico gusto di riciclare gli ingredienti avanzati da pasti precedenti, come ad esempio il pane raffermo, arricchendolo di sapori e di aromi.

 spitina

 I  migliori “spitina”  sono quelli fatti in casa, che sono davvero buonissimi  e genuini, perché il tipico ripieno palermitano a base di “muddica, passulina e pinoli, pittrusino, cipudda” etc è davvero insuperabile. Di tanto in tanto li preparo armonizzando ogni sapore come meglio posso, dal dolce al salato, con l’aiuto della scorzetta dei nostri limoni e magari anche di qualche fogliolina di menta, mentre li preparo  ricordo anche gli imbattibili spiedini che cucinava mio nonno al cui  interno c’erano anche dei sottili fili di cipolletta scalogno; quando li faceva insieme a mia nonna ci impiegavano delle ore, prima stendevano tutte le fettine di carne battuta sul tavolo rotondo della cucina, poi distribuivano il prosciutto a fettine e il mucchietto di “consa”  e poi quelle fettine di scalogno infine li arrotolavano piano piano, li infilzavano  con lo spiedo alternandoli  alla cipolla e alla foglia di alloro e li ammollicavano con una lentezza davvero siciliana.

Se invece gli “spitina” vengono acquistati già pronti dal macellaio che a Palermo è più comunemente chiamato “carnezziere”  o ancor meglio “chianchiere”, generalmente non mi piacciono molto, magari sono un ottimo modo per preparare una cena veloce, però il ripieno raramente si avvicina al mio ideale: spesso sa di uova, i salumi sono tritati insieme alla mollica creando una sorta di impasto uniforme, manca l’uvetta, mancano gli aromi etc.

Però ci sono degli involtini già pronti  che mi piacciono davvero tanto, non somigliano perfettamente  a quelli palermitani perché in effetti vengono preparati a Caccamo. Sono  morbidissimi, dentro non c’è tutto quell’impasto che sa di uova, ma delle ottime fettine di prosciutto cotto ed un formaggio davvero squisito che fondendo rende il tutto sublime. Questi involtini li compriamo in uno stand di prodotti provenienti da Caccamo al mercato contadino che a Palermo  si svolge il sabato mattina all’interno dell’istituto zootecnico, un luogo che a me piace tantissimo e che ho già descritto su questo blog.

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Vista la loro bontà  mi è bastato soltanto arrostirli in una padella antiaderente ed accompagnarli con delle bruschette semplicissime condite con pomodoro, basilico, aglio ed origano.  Sembra tutto molto semplice, ma ogni tanto le apparenze ingannano…

 Per ottenere qual che si desidera infatti alcune volte bisogna faticare ed io per avere i miei agognati involtini sono dovuta andare al mercato insieme a mio padre, e  con le mie due piccole nipotine di un anno e mezzo e quattro anni, sotto il sole cocente ed una temperatura di circa quaranta gradi… per me un’avventura (è così che ho cercato di presentarla alle due piccoline non del tutto convinte a prender parte a questa situazione) fantastica, stancante forse, ma alla fine divertente.

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C’era caldo, tanto caldo e la piccolina continuava a bere e a ripetere la parola “acqua” scandita in modo perfetto e senza mai  fermarsi, la  sorella maggiore lamentava il caldo, la stanchezza e la sete,  e non avendo la sua bottiglietta personale  era avvilita, ma si rifiutava alla sola idea di attingere al biberon  “tutto bavoso” della sorellina più piccola, allora per far passare il tempo  in modo piacevole abbiamo cantato  tutto il nostro solito repertorio concludendolo con una canzone sulle zanzare, ognuna con il proprio ruolo, anche la piccolina, che ha svolto con competenza il suo compito ovvero il  verso della zanzara “zazazaza”.

 Finite le canzoni non sapevo più come fare per distrarle ed allora le ho intrattenute  con una storia inventata lì per lì, una racconto che parlava di alberi giganti, di vecchi indiani che meditano e lasciano messaggi  nascosti da decodificare, di familiari, di India e di Germania, di diari segreti, lettere antiche, libri di infiniti secoli addietro, di un seme piantato dal nonno del nonno del nonno del nonno del nonno (chissà perché anche lui indiano), di un albero nato da quel seme,  un albero gigante e cavo da scalare però internamente, di una casetta sul’albero, di una nicchia a forma di cuore, di una candela luminosa, della ricerca della felicità e di un tesoro da trovare tramite una parola  da decriptare  che alla fine era  l’amore e del risveglio finale  perché in realtà si trattava soltanto di un  sogno.

Dopo tutto questo a cena ho mangiato i miei involtini, li avrò meritati?

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