Maccarruncini chi vrocculi arriminati

Da un po’ di tempo non parlo di cucina sul blog Agave, questa è una ricetta tipica palermitana, ecco l’articolo che ho scritto sulla Rubrica A Favorire che curo su Cinisionline

Esiste un cibo molto appetitoso e all’apparenza innocuo, che però contiene delle insidie. È uno dei piatti più gustosi e profumati della cucina palermitana: una pasta vegetariana (tranne che non si voglia aromatizzare con una acciuga sottolio), ma dal gusto speziato, dolce e salato allo stesso tempo, dal colore tendente al giallo, grazie all’ausilio del prezioso zafferano. Tutto si potrebbe dire, tranne che questo splendido piatto di pasta nasconda qualche particolare difetto.

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Fin da piccola mi sono abituata a qualcosa di strano, molto strano: di sovente, entrando negli androni dei palazzi della città di Palermo, capita di percepire un odore (per essere gentili) devastante, infestante, insopportabile, nauseabondo, imparagonabile ad ogni altro fetore, uno di quelli che porterebbe chiunque a dire istintivamente: “che puzza!” o più sicilianamente: “chi fetu”. Eppure è un tanfo che tutti riconoscono e sopportano, perché si sa che ciò che lo emana ha un gusto delizioso, in totale contrapposizione a quell’odore. CONTINUA SU CINISIONLINE

I babbaluci palermitani

Ricordo che quando ero bambina, se si andava in campagna per una gita, non ci si poteva “allannuniari” nel dolce far nulla, ma bisognava accompagnare quel momento con varie occupazioni che potessero far trascorrere il tempo in un modo proficuo. Così poteva capitare che si dovesse raccogliere verdura selvatica: giri e cavoliceddi, cardella, asparagi, l’origano che cresce d’estate sulle nostre montagne o i capperi della macchia mediterranea, ma soprattutto ricordo che durante le estati assolate era molto gradita la raccolta dei “babbaluci” che spesso si annidavano tra i rami secchi delle piante spinose, raggruppandosi tutte insieme all’apice di quei “ramurazzi” forse alla ricerca del sole, creando delle strane sculture naturali.

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Ricordo così che d’estate poteva capitare di andare in giardini abbandonati a raccogliere lumache continua

La “rivoluzione della caponata senza dado”

“Se non c’è dado non c’è caponata e se non c’è caponata non c’è … Famigghia!!!

E se ai siciliani viene toccata la cucina tradizionale e la famiglia non c’è via di scampo. Si può sopportare di tutto e di più, ma per questi due capisaldi della nostra cultura in tanti sono pronti a scatenare una vera rivoluzione, la “rivoluzione della caponata senza dado” , al grido, anzi come si dice adesso all’hastag di #savecaponata, o #jesuiscaponata(tristemente di moda in questo periodo).

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Ma partiamo dalle origini. Un grosso marchio dell’industria alimentare, forse seguendo come principio l’idea dell’”importante che se ne parli”, lancia una pubblicità che  si apre con una bellissima immagine del Teatro Politeama, che farebbe scendere una lacrimuccia di commozione ad ogni palermitano inevitabilmente innamorato della propria città. Questo è quello che potremmo definire il primo grave errore, perché se a noi palermitani ci metti in uno stato d’animo di sentimentalismo verso la nostra amata  Conca d’oro, già dovresti immaginare quello che potrai scatenare. CONTINUA

Ulivo, tra religione e mito. Ricette per le olive in salamoia

Tra ottobre e novembre si raccolgono le olive e si produce l’olio.

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L’olio nuovo è davvero delizioso, il suo colore è verde smeraldo intenso, gusto e odore pungenti, si distingue facilmente dall’olio dell’anno passato (per non parlare di quello di produzione industriale) grazie al suo vero, intenso e profondo profumo di oliva: basta sfregarne una goccia tra i palmi delle mani per sentirne sprigionare l’effluvio, in più l’olio dell’anno precedente avendo già sedimentato, diventa trasparente, mentre quello nuovo è opaco. Tutti questi piccoli indizi  possono servire a scegliere il proprio frantoio di fiducia e a non incorrere nei trucchetti vari che alcuni venditori mettono in atto, come il mischiare l’olio vecchio con il nuovo. Quando si acquista l’olio dal frantoio, bisogna travasarlo in bottiglioni di vetro, che devono essere lasciati senza il coperchio per almeno una settimana, in modo da farlo evaporare. A questo punto si deve fare depositare l’olio. Quando si distinguono bene le due parti separate (una più trasparente in alto e al fondo quella opaca, che qui chiamiamo “murga”), si può travasare lentamente l’olio in altre bottiglie che potranno già essere consumate, lasciando da parte il fondo depositato dall’aspetto melmoso. Ma visto che non bisogna buttare nulla, o almeno il minimo possibile, attendendo altri giorni anche quel deposito si dividerà in due parti, così si potrà procedere al travaso della parte più trasparente e procedendo nello stesso modo più volte, alla fine rimarrà davvero poco da buttare, su un bidone di dieci litri, circa mezzo bicchiere di deposito finale da eliminare, che se però venisse lasciato, rischierebbe di far “ammurgare” tutto l’olio. CONTINUA su cinisionline

San Martino, tra dolci e vino

Il giorno di San Martino e la così detta “estate di San Martino” si festeggiano con dolci e vino. Non tutti forse conoscono la storia di questo Santo, ma l’occasione per imbandire la tavola non viene persa.

San Martino, tra dolci e vino

L’ 11 Novembre che è il giorno di San Martino se ricorre in un giorno feriale viene definito “San Martino dei ricchi” perché può essere festeggiato dalle persone più benestanti che non hanno bisogno di aspettare la domenica successiva (detta “San Martino dei poveri”)  per celebrare il santo a tavola.

Durante questa festa si consumano tre tipi di biscotti, i più semplici sono i “tricotti” di forma rotonda e aromatizzati da semi di finocchio selvatico. Questi biscotti molto croccanti si bagnano nel Moscato, un vino dolce ricavato da uve “inzolia”.

Lo stesso biscotto (con una pasta un po’ più morbida e meno croccante del precedente), viene inzuppato nel rum e condito in due diverse versioni. Una è con la ricotta e scaglie di cioccolato e ricoperto da zucchero velato. L’altra versione è di grande impatto da un punto di vista estetico, perché le sue decorazioni potrebbero sembrare gli ornamenti di una chiesa barocca. Ha al suo interno la conserva verde ed è ricoperto totalmente da una glassa di zucchero che lo  rende simile a una cupoletta bianca, è  arricchito da ghirigori sempre di glassa di diversi colori, bianco, rosa, celeste,  ed adornato da confetti colorati, da cioccolatini incartati e da decorazioni argentate.

Il giorno di San Martino coincideva con culti precristiani e rurali in cui si celebravano gli ultimi giorni caldi prima dell’inverno, quella che poi venne chiamata “l’estate di San Martino”. CONTINUA su cinisionline

La Frutta Martorana

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La protagonista del tipico “cannistru” che a Palermo si prepara per la “festa dei Morti” è la Frutta Martorana, dolcetti di pasta di mandorle che hanno la forma della frutta.

La Martorana è la versione siciliana del Marzapane, un dolce a base di farina di mandorle mescolata con zucchero e albumi, esistente in diverse città italiane e non solo, in Germania o in Austria il marzapane è utilizzato anche all’interno di alcuni dolcetti di cioccolato. Il termine marzapane probabilmente deriva dalla parola araba “manthàban”, il contenitore per un pane fatto a base di mandorle e zucchero.
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La “muffuletta” del 2 Novembre

A Muffuletta del 2 Novembre

Il 2 Novembre a Palermo, in ricordo degli antichi banchetti che si svolgevano all’interno dei cimiteri per la “Festa dei Morti”, si usa ancora oggi mangiare a “muffuletta”, una pagnotta veloce da preparare e da portare fuori casa.

L’usanza di imbandire banchetti all’interno dei cimiteri aveva come scopo quello di accorciare le distanze con i propri parenti defunti e di condividere insieme a loro, almeno per un giorno l’anno, la cosa più naturale della vita, il momento del mangiare. Anche se questa tradizione è ormai scomparsa, nessuno a Palermo rinuncerebbe in questa giornata a mangiare la propria “muffuletta”, un pane tondo e un po’ schiacciato,  spugnoso, coperto in superficie dal cimino (semi di sesamo).

Per l’occasione si gusta “maritata”, condita con la ricotta di pecora, ma soprattutto  “schietta”, con olio d’oliva, sale, pepe, sarde salate e caciocavallo; ogni famiglia ha la sua ricetta. C’è chi preferisce mangiarla per colazione al posto del pane con il latte, sembrerebbe un atto di coraggio, se non fosse che per lo stomaco dei palermitani abituati a far colazione con pane e panelle, ravazzate, iris fritte o arancine, la muffuletta al confronto è poca roba. C’è chi invece la mangia a pranzo, prima di continuare a festeggiare con dolci, biscotti e frutta martorana. CONTINUA su cinisionline

“La caponata con formula magica” su cinisionline

caponata

La caponata è uno dei piatti siciliani tra i più noti, ma anche tra i più ricchi di varianti, ogni città o paese ha una sua particolare interpretazione.

“La caponata dei monsù” (cuochi francesi nella Palermo del XIX secolo) molto probabilmente prevedeva la presenza del capone fritto (pesce lampuga) “apparecchiato” (condito) con una salsa a base di sedano, olive, capperi, cipolle e pomodoro in agro dolce.  La “caponata dei poveri”  divenne in seguito  uno dei piatti più apprezzati della gastronomia siciliana, in questa versione i tocchetti di melanzane fritte sostituivano il pesce… CONTINUA