Carmelo Pecora presenta “Tre ragazzi in cerca di avventure e sette racconti” a Terrasini

Sabato 1 Aprile 2017 alle ore 17.00 presso il Margaret Cafè in Via Madonia 93 a Terrasini (PA), Carmelo Pecora presenterà il suo libro , CartaCanta Editore.

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Carmelo Pecora, che attualmente vive in Emilia Romagna, si trova in questi giorni ad Enna, sua città d’origine, dove una scuola ha adottato il suo nuovo libro. Siamo felici di averlo con noi a Terrasini visto il suo legame con il nostro territorio, lo scorso anno è stato a Cinisi dove a presentato L’urlo di Maggio, il suo reading teatrale tratto dal libro  9 maggio ’78 – Il Giorno che assassinarono Aldo Moro e Peppino Impastato. Anche in questa occasione si aprirà uno scambio rispetto a questa tematica.

All’evento coordinato da Evelin Costa, sarà presente l’autore del libro ed interverrà Pino Manzella. Saranno proposte alcune letture.

L’evento è promosso dall’associazione Asadin con la collaborazione di Evelin Costa.

Carmelo PecoraCarmelo Pecora (Enna, 1959) è un ex ispettore capo della Polizia scientifica. In ambito letterario ha al suo attivo diverse pubblicazioni tra cui: 9 maggio ’78 – Il Giorno che assassinarono Aldo Moro e Peppino Impastato (Editrice Zona, 2007) che ha ricevuto il Premio speciale al concorso Com&Te e dal quale è stato tratto il reading teatrale L’Urlo di Maggio; Polvere negli occhi sulla strage alla stazione di Bologna (Editrice Zona, 2009), Ustica, confessioni di un angelo caduto (Editrice Zona, 2011) e Gli infedeli – storie e domande della Uno bianca (Editrice Zona 2014).

Enna, nel cuore della Sicilia, tre ragazzini di tredici anni, un po’ per gioco un po’ per scommessa, scappano di casa e decidono di intraprendere un viaggio che possa portarli lontano, magari in America. Tra mille peripezie arrivano a Palermo, una città mai vista e all’apparenza lontanissima, da dove cercano di imbarcarsi su una nave e dare così inizio a una avventura ancora più incredibile. Molti anni dopo, uno dei tre, diventato responsabile della Polizia scientifica si trova di fronte a una situazione simile: Margherita, una sedicenne pugliese, abbandona la sua famiglia e parte alla volta di Milano per rincorrere un sogno. Durante le procedure di identificazione, i ricordi, inevitabilmente, si faranno spazio nella mente del capo della Polizia scientifica e tutto sembrerà tornare, per qualche ora, a quel lontano 1971.

Un romanzo breve e sette racconti che sono un inno alla libertà e al senso di responsabilità che nel corso della vita accompagnano le nostre scelte, al desiderio di un mondo più giusto che alberga nel cuore di chi ogni giorno si impegna per un futuro migliore.

 

“La tua presenza è come una città” poesia per raccontare.

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Incontro con Ruska Jorjoliani   autrice de “La tua presenza è come una città” edito da Corrimano Edizioni e con  la sorella Ketevan Jorjoliani illustratrice, di cui si inaugura la mostra pittorica. Domenica 2 Ottobre 2016 alle ore 18.00 presso il Margaret Cafè in Via Madonia 93 a Terrasini (PA) .Un’occasione  per conoscere la talentuosa autrice di un romanzo che sta ottenendo molta attenzione e riscontri positivi, finalista al Premio Hermann Geiger 2016, il suo romanzo è già stato recensito su giornali quali La Stampa e il Fatto Quotidiano. La mostra di Ketevan Jorjoliani potrà essere visitabile presso la sala espositiva del Margaret Cafè fino al 22 Ottobre, tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00. L’evento è promosso dall’ass.ne Asadin.

Sotto la mia recensione del libro “La tua presenza è come una città”, seguiranno le biografie dell’autrice e della pittrice.

Recensione:

“La tua presenza è come una città” è il romanzo di Ruska Jorjoliani, il cui titolo è il verso di una poesia di Boris Pasternak. Non è un caso che la scelta dell’autrice sia caduta proprio su una figura retorica contenuta in un verso poetico. Il romanzo è infatti, in tutta la sua tessitura, intriso di poesia. Metafore, similitudini, simbolismi, fluttuano in ogni capitolo rendendolo ogni volta come un piccolo scrigno capace di custodire, nascondere e svelare significati reconditi. L’autrice, che ha iniziato il suo percorso letterario nella poesia,  durante una delle presentazioni del suo libro, ha rivelato che questo suo primo romanzo nasce anche come “demistificazione della poesia, tramite l’uso della forma prosaica”, un modo questo che le ha dato la possibilità di non risparmiarsi, di ricercare, di sviluppare il suo perfezionismo, di agire come una scienziata che cataloga ed organizza ed in altri momenti come uno scultore che cesella ed incide la sua materia, rendendola ricca di microscopici e macroscopici dettagli e particolari. La prosa che ne risulta è ricca, lirica, colta, filosofica, complessa, intrigante, poetica. Uno dei protagonisti, Dimitri, nella sua ultima lettera ai genitori, inviata dal confino, scrive: “Forse ho riposto troppa fiducia nelle metafore. Soprattutto in quella dell’albero. E della Storia. Senza pensare che è forse ciò che si nasconde dietro la metafora a contare, più della metafora stessa…”. Dimitri ha molto creduto nelle metafore e sogna che suo figlio Kirill diventi un poeta, perché la poesia può essere un motivo valido per cui vivere, anche se a volte ci sono alcuni “che nascono quasi apposta per essere schiacciati dalle ruote del tempo, che invitano quasi la sorte a stritolarli nella sua morsa”. Questo desiderio di poesia sarà realizzato, in un modo o nell’altro. A compierlo sarà il “guardiano di libri”, Saša, che in un sogno premonitore o rivelatore vedrà un monaco che tiene in braccio un gatto dirgli: “sai anche resuscitare i morti? Sei solo un cane che bazzica i cimiteri e che ogni tanto dissotterra qualche osso”. Eppure sarà proprio “resuscitando i morti” che realizzerà il sogno dell’amico e dei di lui genitori.

Il romanzo è anche un romanzo filosofico, perché le vicende dei personaggi sono raccontate con “lo scopo di far cogliere qualcosa di universale”. Come scriveva Milan Kundera, autore amato dalla scrittrice georgiana: “Il romanzo è una meditazione sull’esistenza vista attraverso i personaggi immaginari”. Ci sono almeno due mondi a confronto in questa vicenda ed in ciò che le fa da sfondo, due modi di concepire il reale. Quello che vede l’esistenza e le scelte individuali come irrilevanti, che vede il soggetto come un elemento inconsistente all’interno del fluire della Storia, intesa in senso hegeliano come un movimento dialettico dentro l’Assoluto e nella Verità, in quello che potrebbe essere definito un ordine strutturale dentro il quale il soggetto nulla può. Le estreme conseguenze di questo pensiero hanno portato allo stalinismo con le sue aberrazioni, sistema nel quale i nostri protagonisti sono immersi con tutto quello che ne consegue. C’è poi un modo di concepire la realtà che mette al centro l’individuo con le sue scelte, l’esistenza umana dei singoli soggetti che fanno la Storia. Non è un caso forse che il libro di poesie di Kirill si intitolerà “Il caos genera l’essere individuale”, il caos è libertà che si contrappone a un ordine estraniante. Nel romanzo c’è chi sceglie e chi non sceglie, c’è chi accetta l’esistente e chi paga le conseguenze della propria diversità, chi subisce le conseguenze della scelta di voler andare controcorrente. Ma in questa storia tutti pagano per sempre le scelte ed anche le non scelte, forse non ci sono eroi e nemmeno traditori, “a ognuno il proprio ruolo, e nessuna colpa” come scrive Dimitri all’amico Viktor.

La storia, che attraversa più generazioni, ha come sfondo la Russia sovietica in cui, come in tutte le dittature, l’individuo è svilito, offuscato, annullato. Un “socialismo disumanizzante” che si allontana da quel Socialismo dal volto umano descritto e sperato da Dubcek ai tempi della Primavera di Praga. Viktor, uno dei protagonisti del romanzo, eroe-antieroe che si macchia della colpa di esser stato il delatore del suo migliore amico, sogna segretamente un “socialismo gentile” dove il “dolore non dovrebbe aver avuto un’infanzia”.

E’ questo un romanzo che parla di libertà e di dittatura, affronta un tema non semplice con poesia e anche con ironia. Parla di Cultura, di come questa sia in contrasto con il dispotismo dei regimi che come primo compito si pone quello di “sfrattare la cultura”, di imporre un pensiero unico, di creare, come la stessa Ruska Jorjoliani ha affermato, “uno slittamento semantico, di distorcere il significato delle parole, di creare sfiducia nel linguaggio”, incomprensioni, divisioni, odio. L’autrice esplicita questo attraverso una serie di bizzarri interrogatori, a volte surreali, quasi umoristici, ridicoli nella loro pericolosità. Può questo romanzo aprire una riflessione interessante sul modo, anche attuale, di comunicare, ci fa riflettere sul forviante e manipolatorio uso della comunicazione sia verbale che scritta che si espande anche attraverso i social, i mass media. Un uso a volte distorto delle parole e del linguaggio comune, con tutte le sue possibili conseguenze. La cultura è sostanziale per superare queste distorsioni di significato, può andare oltre le fazioni e gli odi, può unire piuttosto che dividere. Ruska Jorjoliani racconta quanto sia stato importante per lei, da georgiana, aver sentito un senso di appartenenza per i romanzi russi, perché il sapere ed anche il bello sono universali e non hanno confini, vanno anche oltre le guerre. Ricordando un episodio di infanzia, afferma quanto, anche nei momenti di estrema povertà, fosse importante per lei la lettura di un libro, nutrimento per l’anima, che sua mamma, anche a costo di sacrificare altro, non smetteva di comprare.

“La tua presenza è come una città” è un romanzo polifonico, corale, policentrico. Sono tante le voci che raccontano, tanti i protagonisti, quelli presenti e quelli assenti il cui fantasma, forse il simulacro, secondo la teoria di Dimitri, permane in tutto il racconto, come il suono cupo di una campana. Tutto l’intreccio si costruisce di casella in casella, come in un mosaico o un percorso misterioso che si va svelando a tappe, di capitolo in capitolo, in un reticolo che all’inizio appare complicato, ma improvvisamente si illumina rendendosi chiaro e limpido al lettore. Variano le voci narranti, ed anche le forme letterarie si alternano contribuendo alla costruzione della trama: lettere, lettere mai scritte ma ricevute, elenchi, interrogatori veri ed immaginari, dialoghi, favole (come quella “fiaba russa da raccontare ai figli durante una passeggiata all’orto Botanico”, che narra quasi in un racconto a sé la storia di un bellissimo amore nato nei boschi). E’ una sperimentazione quella che l’autrice mette in atto, che nasce dalla conoscenza di tanta letteratura di qualità, è chiaramente un romanzo per nulla improvvisato, chi l’ha scritto ha letto molto, ha meditato molto, cosa forse rara ai tempi di oggi.

La storia narrata è quella principalmente di due coppie di amici, i padri e i figli. Due amici, i padri che si conoscono da sempre, uno Dimitri professore di letteratura russa alle scuole medie di Miroslav, l’altro Viktor ingegnere, costruisce o piuttosto distrugge ponti, come il regime gli richiede. I due hanno visioni diverse della realtà in cui vivono, il socialismo reale. Al primo quella dimensione sta stretta, la soffre, lo soffoca fino a star male, teme una società fatta solo di Simulacri che sostituiscono le vere identità, vede costantemente la possibilità di arresti o omicidi di persone innocenti, “non ha mai creduto in nessuna rivoluzione”, come afferma il suo migliore amico durante un interrogatorio. L’altro, Viktor, accetta apparentemente quella realtà, crede nel regime e non vuole vederne i limiti. Tra i due gli scontri ideologici sono descritti in una surreale partita a scacchi, in cui nessuno vince. Alla fine, o meglio all’inizio di tutto il successivo dipanarsi della storia, Dimitri lancia fuori dalla finestra dell’aula dove insegna il ritratto di Lenin. L’amico lo denuncia, azione che segna tutto il resto della sua vita. Accoglie in casa, insieme alla propria moglie Alina e al proprio figlio Saša, la moglie Sošanna ed il figlio Kirill dell’amico.  Le due mogli creano tra loro uno stretto legame di sorellanza, i due ragazzi crescono come fratelli e Viktor diviene per Kirill il padre mancato, anche se Dimitri vivrà sempre in tutti loro. I figli rivivono la storia dei padri, le loro vicende quasi si offuscano e si mescolano fino a confondersi, scrive Saša in una lettera “a volte mi chiedo se sia così grave figurarsi che ogni tanto la sottile membrana che ci divide si spezzi e i confini tra me, te, Viktor, Dimitri e altri ancora diventino così sfocati da essere indistinguibili”.

Leggere questo romanzo è anche in parte leggere la storia della sua autrice. Non descrive la sua vita, che pure è interessante ed unica, ma il suo essere georgiana, l’essere nata quando ancora esisteva l’URSS, l’aver vissuto la guerra e la povertà, aver assistito allo sfacelo del proprio paese e di tutte le illusioni che si portava dietro, l’esser giunta in un paese straniero, l’Italia, accolta da una famiglia palermitana fin da bambina, tutto questo in qualche modo c’è nel romanzo, è una presenza da cui è difficile prescindere. L’autrice è presente anche nella scelta di scrivere in una lingua complessa, l’italiano, che non è la propria lingua d’origine, ma che in questo caso ha rappresentato un aiuto per guardare alle vicende del proprio paese, tramite una lente che la potesse distaccare facendole apparire il tutto con maggiore equilibrio e senza far prevalere il proprio intimo coinvolgimento.

Così il lettore si abbandona in una storia antica ma moderna, lontana ma vicina, particolare ma universale, che parla di accoglienza, di amicizia, di fragilità e miserie umane. Ogni simbolo è una voce che si aggiunge al coro: il cappotto di Viktor regalatogli da uno zio al ritorno dalla guerra che rimarrà una costante fino alla morte, “Morirà con addosso questo cappotto” pensa l’amico guardandolo andar via per l’ultima volta; l’albero, gli occhiali di Dimitri che passano al figlio, il cassetto, l’asino la cui colpa è l’aver ubbidito ad una giusta causa, la Campana rubata per impedire che la sua voce suoni in nome della guerra, gli scacchi, e poi le scarpe di camoscio blu nuove. Quest’ultimo triste e macabro particolare mi ha lasciato un amaro sorriso, non so se è una citazione voluta o se è solo un caso, ma quelle scarpe di camoscio blu che penzolano dal ramo di un albero insieme a un paracadutista dilettante, non potevano non ricordarmi quelle “Blue Suede Shoes” che a ritmo di rock and roll mi hanno rammentato l’importanza di guardare con ironia il fluire della vita, dall’inizio alla fine.

Evelin Costa

Ruska Jorjoliani è nata a Mestia (Georgia), nelle montagne del Caucaso, nel 1985, quando sul mappamondo esisteva ancora un enorme paese chiamato Unione sovietica. Nel 2007 si è trasferita a Palermo, dove due anni dopo ha vinto il suo primo premio letterario: “Mondello giovani Sms-poesia” (per i versi dedicati a Dino Campana), dove si è laureata in filosofia, e dove vive e studia tuttora.
Ketevan Jorjoliani è nata in Georgia nel 1991 e si è laureata nel 2013 all’Accademia di Belle Arti di Tbilisi, in Design della Moda. In quegli anni studia arte pittorica nell’atelier del pittore georgiano Gia Khutsishvili. Dal 2015 è iscritta al biennio di pittura all’Accademia di Belle arti di Palermo. Collabora con Corrimano Editore dal 2014.

 

 

 

“A Persica cu vinu”, il mio bisnonno e gli ‘gnuri palermitani.

D’estate i palermitani amano mangiare fuori, frase con cui si può intendere il mangiare al ristorante  oppure… in balcone: sempre di stare fuori casa si tratta e per di più all’aperto, senza il bisogno di stordirsi con la cosiddetta aria confezionata.

Quando c’è caldo e si decide di mangiare all’aperto, in giardino, campagna, al tipico villino che la maggior parte dei palermitani possiede, o in extremis nel balcone di casa, serve qualcosa di fresco e dissetante, in questi casi l’ideale per i palermitani è una bella fetta di muluni, ma una valida alternativa è anche “a persica cu vinu” (la pesca col vino).

 persica cu vinu

La persica col vino piace tantissimo ai palermitani che infatti  la portano pure al Festino di Santa Rosalia, perché si “accoppia” bene con i babbaluci, è rinfrescante e gustosa e mangiare i pezzetti di pesca estraendoli dal bicchiere con la forchetta è una vera goduria.  In passato era un tipico cibo da taverna, veniva servita nelle cosiddette “cannate”, dei grandi boccali di vetro, e insieme alle uova sode, alle fave a cunigghiu, ai babbaluci, al mussu a stricasali etc, era uno dei cibi che fungeva anche da passatempo. Si innaffiava il tutto con litri di vino e si giocava al “tocco”, classico gioco che stimolava gli avventori a bere sempre di più. continua

Il “treno speciale” della Sicilia

Qualche tempo fa ho scritto un post in cui introducevo una nuova rubrica di questo blog dedicata al mio modo di concepire il viaggio, in quell’articolo parlavo del mio primo vero viaggio avventuroso cominciato in un “tipico autobus palermitano”, qui vorrei continuare a scrivere del viaggio e “concludere” quella strana avventura che proseguì su di un ancora più bizzarro mezzo di trasporto: il treno, ma non un treno normale, un  “treno speciale siciliano per una manifestazione”  e se già i treni che viaggiano dalla Sicilia sono davvero unici nel loro genere, quelli destinati ai  manifestanti sono veramente singolari.  continua

Gli “spitina ri carni”, il mercato del contadino ed una storia inventata lì per lì.

Ieri ho mangiato i miei “spitina ri carni” preferiti.

A Palermo con il termine “spitina” si intendono gli involtini di carne ripieni, impanati, infilati in uno spiedino di bambù  e arrostiti, un piatto profumato di alloro, che nasce dal nostro tipico gusto di riciclare gli ingredienti avanzati da pasti precedenti, come ad esempio il pane raffermo, arricchendolo di sapori e di aromi.

 spitina

 I  migliori “spitina”  sono quelli fatti in casa, che sono davvero buonissimi  e genuini, perché il tipico ripieno palermitano a base di “muddica, passulina e pinoli, pittrusino, cipudda” etc è davvero insuperabile. continua

Introduzione: il viaggio da siciliana. Post: Il mio primo viaggio quasi solitario e l’autobus palermitano

I miei viaggi da siciliana

In questi giorni mi è capitato di ripensare alle mie gite in Sicilia e ad alcuni post già dedicati o da dedicare a tanti luoghi davvero favolosi. Mi piace ripercorrere la Sicilia e viaggiare anche se non lo faccio tanto spesso e mi piace soprattutto scrivere di quello  che ogni luogo visitato  mi racconta.

Così mentre sognavo di errare chissà dove, ho considerato che quella del viaggio, per me, è una dimensione importante e particolare, non ci avevo mai pensato prima anche perché ultimamente ho girato poco, però di viaggi mentali ne ho fatti davvero tanti…

Ad un certo punto della mia vita, forse per curiosità, forse per destino,  il viaggio è persino entrato in casa mia . Come dice il detto “Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto”, così nella mia dimora sono arrivati i viaggiatori con tutto il loro bagaglio di tradizioni ed identità, ed anche quello è uno strano e ribaltato modo di viaggiare, cosa è in fondo il viaggio se non il desiderio di conoscere qualcosa di diverso, di lontano, quella voglia di arricchire non tanto il proprio corpo ma piuttosto  la mente con odori, sapori, immagini, respiri, ma anche pensieri, parole, scambi di sogni e condivisioni di esperienze?

Il viaggio è un baratto, in cui si raccoglie e si impara, ma si condivide anche una parte di sé, si dona qualcosa, si cambia e ci si scambia incontrando altre persone ed altre dimensioni, e quando si ritorna il viaggio continua ancora fuori e dentro di sè.

 Il racconto del viaggio esprime tutto questo, perché un luogo non è solo quello che è ma anche il modo in cui ognuno lo vede e lo vive. E’ anche questo che io voglio scrivere nel mio blog: i miei viaggi reali e non (a partire dai bizzarri  mezzi di trasporto siciliani) , i luoghi della Sicilia con i loro cibi, tradizioni, persone etc, di come li ho vissuti e li vivo e di come chi li leggerà potrà trasformarli nei propri luoghi.

Il mio primo viaggio quasi solitario e l’autobus palermitano

Il mio primo vero e memorabile viaggio da sola, intendo senza la famiglia o la scuola ed avvenuto per mia unica volontà, è stato in treno, ma è cominciato in autobus, quando già ero tutto sommato grande (tranne che per mio padre, che sebbene di mentalità aperta è pur sempre un padre siculo), circa 22 anni, ma non essendo mai partita da sola per me fu una grande avventura o meglio una sorta di fuga, perché per fare questo viaggio semi solitario e senza il consenso dei miei familiari dovetti “quasi” scappare di casa, con il mio amato zaino grigio e azzurro delle scuole superiori, già vecchio e consumato e niente più, ma tanto era un viaggio breve, la meta Roma, giusto il tempo della Manifestazione  del Primo Maggio (non il concertone ma un vero corteo) per poi tornare di nuovo in Sicilia, ma quando un viaggio comincia col piede sbagliato,  le avventure si fanno ancora più divertenti e strane. continua

Una favola: “le polpette magiche”.

Un cibo oltre a saziare il corpo può anche riempire l’anima e spesso far riemergere anche i ricordi del passato, così una foto di semplici polpette ha fatto scaturire in mia madre, grande narratrice di storie e antichi racconti, un fatto di sessantanni fa che ormai sembrava sepolto dalla polvere del tempo, ed invece in pochi secondi è diventato una bella favoletta che ci ha fatto sorridere in una mattinata iniziata col piede sbagliato.

polpette

continua

Strani coriandoli. Un premio per me!

Qualche giorno fa è successo un fatto incredibile, una di quelle cose così veloci, che non hai nemmeno il tempo di realizzarle prima e così assurde che la fantasia riesce poi a ritrasformarle ancor di più facendole diventare come la trama di un film.

foto tratta da internet

foto tratta da internet

Ci trovavamo in autostrada nel nostro solito pendolare tra la campagna e la città, una giornata soleggiata e calma; la nostra auto scassata viaggiava ad una velocità moderata quasi in automatico, ormai la vecchietta conosce la strada a memoria. continua