Sassittassi la mostra collettiva “sedie d’artista”

Pubblico il comunicato della mostra collettiva Sassittassi di sedie d’artista in cui sarà presente anche una sedia realizzata da me, grazie all’Associazione Ricercarte per avermi invitato a far parte di questa collettiva.

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Sarà inaugurata sabato 17 dicembre alle ore 18:00 presso il Museo di Arte Contemporanea San Rocco a Trapani, in via Turretta 12, la mostra collettiva “sedie d’artista”, visitabile dal 17 dicembre all’ 8 gennaio 2017 dal mercoledì al sabato dalle ore 17.00 alle ore 20.00. La mostra è inserita nel progetto benefico sassittassi. Alla mostra sono presenti 19 artisti coloro i quali hanno donato le loro opere per questo progetto. Le sedie verranno vendute all’ asta e una parte del ricavato sarà devoluto all’ associazione il Pellicano di Santa Ninfa che si occupa di infanzia abbandonata. Un ringraziamento particolare al direttore del museo Don Liborio Palmeri che ci ospita in questa sede prestigiosa, agli  artisti e a tutti quelli che hanno creduto in questo progetto. La mostra a cura dell’associazione culturale RicercArte, con un testo in catalogo del critico d’arte Vinny Scorsone, grafica di Piera Ingargiola, allestimento staff RicercArte, foto in catalogo fornite dagli artisti.

In “Sassittassi” infatti, la sedia non è soltanto un oggetto di design. Niente a che fare con le “Chaise” di Le Corbusier, Mies Van de Rhoe o, prima ancora, di Charles Rennie Mackintosh, Giacomo Balla, Fortunato Depero o Marcel Breuer (solo per citarne alcuni) che avevano una precisa funzione pratica. Nel caso di questa mostra, invece, la sedia, svincolata a volte da una vera e propria funzionalità, si libera caricandosi di ben altri bisogni che privilegiano l’aspetto spirituale e artistico.

La sedia d’artista moderna prende spunto dal movimento anti-design che si sviluppò negli anni Ottanta, quando all’idea di funzionalismo si contrappose una concezione più libera e antifunzionalista dell’oggetto in cui prevalgono principalmente l’aspetto ludico e contenutistico (tra i principali esponenti di questa nuova concezione del design abbiamo, per esempio, Alessandro Mendini). Sono quelli gli anni in cui design, arte contemporanea e artigianato si fondono dando vita ad oggetti che travalicano la loro funzione primaria per aprirsi a nuove strade e nuove interpretazioni.  La sedia concepita come vera e propria opera d’arte, se si escludono le opere di alcuni artisti concettuali come Joseph Kossut, ha una nascita più recente. Tra gli artisti che realizzarono numerose “Sedie d’artista” non posso non ricordare Giusto Sucato (recentemente scomparso).

Le sedie elaborate ed esposte in questa mostra, prendono così spunto da due aspetti fondamentali: Il primo è quello legato al funzionalismo e all’idea futurista e del Bauhaus dell’arte nella vita di tutti i giorni (mobili ed oggetti compresi); il secondo, invece, punta all’aspetto più “astratto” dell’oggetto azzerandone la funzione principale e concentrandosi su tematiche più concettuali e eteree.

Negli ultimi decenni la sedia si è resa protagonista di numerose esposizioni di arte contemporanea. Ma perché lei e non qualche altro oggetto? Forse perché in essa sono concentrate diverse tematiche e necessità che la rendono una compagna ed un’ancora di salvezza nel mare agitato della frenetica vita quotidiana. La sedia come pausa, oggetto caro e rinfrancante del nostro corpo stanco, come amica di sempre pronta ad accoglierci ed accogliere i nuovi ospiti che nella nostra esistenza si avvicendano, punto fermo e sicuro della nostra anima spossata.  In “Sassittassi” essa diviene ora albero ora oggetto respingente, ora cavalcatura ora lacerazione interiore. Simbolo di precarietà o di gioco, essa si presta a più reinterpretazioni disvelando le sue mille facce in un continuo alternarsi di equivoci ed inganni o solide certezze. La sedia, quindi, come simbolo di una società eclettica in cui nulla è ciò che sembra: labile specchio d’acqua saponata pronto ad infrangersi al minimo tocco o resistente nuvola disposta ad accoglierci e sorreggerci.

Vinny Scorsone

Gli Artisti: Arturo Barbante, Tiziana Cafiero, Peppe Caiozzo, Bartolomeo Conciauro, Evelin Costa, Lià D’Aleo Angelo Denaro, Cinzia Farina, Giuseppe Fell, Naire Feo, Dimitri Gazziero, Piera Ingargiola, Marco Lotà, Pino Manzella, Maria Laura Riccobono, Angela Sarzana, Nancy Sofia, Caterina Vicari, Istituto d’arte di Palermo

Associazione culturale RICERCARTE    ricercarte.jimdo.com     e-mail bcricercarte70@gmail.com

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un particolare della sedia da me realizzata

 

 

LIBER- libri d’artista di Paolo Chirco

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La mostra di Paolo Chirco ha come titolo la parola latina Liber, un termine che può essere tradotto in italiano come “libro”, ma anche con l’aggettivo “libero”, a ricordarci che c’è una radice comune che lega la cultura alla libertà, e che senza l’una non può esistere l’altra e viceversa. C’è ancora un’altra parola italiana che  traduce il termine latino liber, ed è “figli”, altra affascinante convergenza. I libri sono libere creazioni dell’intelletto e dell’animo umano che rendono immortali e trasmissibili il pensiero, le idee, le parole e l’arte, in questo caso un’arte libera e per la libertà.

Paolo Chirco espone una serie di Libri d’Artista, dai molteplici significati e simboli stratificati in una materia imponente, ruvida, ispida alle volte, come fosse una scorza granulosa e granitica dentro la quale si dischiudono memorie, speranze, malinconie, idealità, delicatezze quasi impreviste. I libri di Paolo Chirco sono come degli scrigni che contengono tesori fatti di materia povera, antitetica al suo reale valore concettuale.

La scelta di realizzare un libro esprime l’esigenza dell’artista di affrontare un discorso culturale e la forma si fa significato e strumento di idee, al di là delle parole che di solito sono contenute in un libro. La storia, la memoria, le verità, i cicli naturali, la cultura, l’oppressione e la libertà sono nel contenuto e nel contenitore. Libri che rimangono pietrificati nel tempo, come se una colata di cemento liquido li avesse impietriti per renderli imperituri, o una raffica di sabbia li avesse cristallizzati per sempre, fermando il tempo in un ultimo istante, che lapidariamente conserva la sua roca voce in un’estrema effige. Libri la cui carta si è pietrificata e colmata di elementi che parlano un linguaggio universale, che oltre ogni idioma si fa subito comprensibile, perché tocca livelli istintuali, quasi ancestrali, arrivando direttamente alla mente e alla sfera emozionale. E’ come se la necessità di cultura e di meditazione, l’importanza di conoscenza e conservazione, la brama di scoperta e protezione, la ricerca di svelamenti e testimonianza, cercassero una voce, non potessero fare più a meno di tacere e volessero farsi eterne.

In questi libri sono presenti materiali di ogni tipo, quelli che un artigiano, un contadino, un pensatore, un pescatore, un raccoglitore, un meticoloso collezionista, un tessitore, un sarto, un musicista, un falegname conserverebbero nel cassetto più remoto del proprio opificio. Paolo Chirco dona nuova vita a questi piccoli e poveri elementi, pezzetti di sostanza, frammenti di tempo materico, anelli ruvidi tra passato e futuro, e da essi crea un racconto nuovo. C’è un elemento che non manca quasi mai da questi libri, stridente strumento di verità dolente. Il filo spinato che opprime, la catena che imbriglia, ruggine che ricopre il fil di ferro che lega con la sua morsa ogni pagina di speranza. E’ la fiducia tradita, l’oppressione che rende opaca la storia, come una moneta ossidata in un mondo scintillantemente illusorio in cui tutto diventa silenzio, fallacità. E’ la catena che opprime il lavoro, la rete che imbriglia, che soffoca la voce libera e le libere parole che vorrebbero volare come piume di uccello dalle pagine di un libro. E’ il filo spinato di un lager che separa gli spiriti affrancati, che emargina i diversi, che con rabbia taglia e lacera il dialogo, la parola e ogni speranza. C’è una forte esigenza di ribellione in questi libri, c’è il racconto di una storia fatta da chi ha vinto, ma è un racconto che non vuole disperdere la storia degli umili, dei contadini, di chi ha sudato il proprio pane quotidiano. C’è la sconfitta, ma c’è anche la lotta, quella contro un mondo meccanico, sterile, fatto di ingranaggi e vincoli. Inchiodato è il mondo, come lo sono le pagine ferite da punte roventi che lacerano la carne, come in una passione che non è quella di un Cristo idealizzato, ma quella di tutti gli sconfitti dell’umanità. C’è un mondo romantico allo stesso tempo, perché romantica è la rivoluzione, che nulla sarebbe senza amore. Leggiadro come quella piuma che vuole librarsi e liberarsi nell’aria, come merletti laceri, come una rosa che è pegno di un amore interminabile e come note di musica che liricamente non smetteranno mai di suonare, perché nessuna oppressione può mai attenuare la musica, asfissiare l’amore, zittire le parole, lenire la voglia di libertà che nasce e mai muore nell’essere umano. La vita meccanica e opprimente trasforma gli umani in esseri inanimati, paurosi, inaspriti dal potere o dalla sottomissione, immobili e muti come le pagine di un libro senza parole e senza voce, ma tutti conservano al proprio interno un fremito d’emancipazione. Così le pagine immobili e cementificate solo in apparenza, contengono significative parole e molte idee, simboli e astrazioni ed insorgono inaspettatamente contro l’immobilismo, spezzano il filo spinato e danno voce al proprio animo forte e delicato al contempo, ribelle ma amorevole, appassionato ma soave e libero come la musica che scolpisce la memoria oltre il corporeo e sopravvive  alla storia, ai vinti e ai vincitori, per raccontarci un mistero che è oltre ciò che vediamo, ma  che è tutto umano.

Di Evelin Costa.

Paolo Chirco nasce a Cinisi (PA). Consegue la maturità artistica nel 1972 a Palermo. Ha continuato la sua ricerca artistica ed il suo fare arte in maniera ciclica e discontinua, con una autoformazione da autodidatta. Ha cominciato ad esporre nel ’95. Tra la prima produzione artistica, volta ad un approfondimento sia tecnico sia stilistico e la produzione odierna, si sono inframmezzati anni dedicati con fervore alla fotografia, alla tessitura, all’incisione calcografica, intercalando lavori vari (dal tipografo al restauratore). Tutte esperienze che oggi mescola nella composizione delle sue opere. Continua la propria ricerca artistica con passione e curiosità, sperimentando nuove tecniche.

Ha esposto su invito e/o selezione in diverse località siciliane, in Italia e all’estero.

Di lui hanno scritto fra gli altri: Claudio Alessandri, Vittoria Bellomo, Francesco Carbone, Claudio Cirà, Laura Coppa, Salvo Ferlito, Aldo Gerbino, Pino Giacopelli, Andrea Greco, Giuseppe Mendola, Marcello Palminteri, Adriano Peritore, Giorgio Olmoti, Pino Schifani, C.J. Shane, Aldo Torrebruno.

Domenica 20 Novembre 2016 alle ore 17.30 al Margaret Cafè, in Via V. Madonia 93 a Terrasini (PA), sarà inaugurata la mostra di Libri d’Artista di Paolo Chirco intitolata “LIBER”, promossa e curata dall’Associazione Asadin con la collaborazione di Evelin Costa. La mostra sarà visitabile presso la sala espositiva del Margaret Cafè fino al 9/12/2016, tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00.

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“Acqua di Pietra, Pietra d’Acqua”, mostra di pittura di Ivana Di Pisa alla Galleria d’Arte Studio 71, Palermo

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“Acqua di Pietra, Pietra d’Acqua” è la mostra di pittura di Ivana Di Pisa esposta alla Galleria d’Arte Studio 71 e presentata in catalogo da Vinny Scorsone.

 Ivana Di Pisa è una pittrice palermitana, la cui prima personale risale al 1975, quando l’artista prediligeva dipingere paesaggi tipicamente siciliani, scorci di strade e case di piccoli paesi. Negli anni successivi ha sperimentato le tecniche dell’incisione e della decorazione della ceramica e della cartapesta. Tornata alla pittura nel 2010 ha continuato ad indagare e rappresentare paesaggi e scorci siciliani, utilizzando acrilici e spatole e sperimentando una sorta di pittura “reminiscenziale”, che allontanandosi dai canoni più rigidi del figurativo, imprime nelle tele sensazioni oniriche e rievocative.

Osservando le opere di questa artista percepisco un grande sentimento per il mare, per la Sicilia e per Palermo in particolare. Riconosco la città di Palermo anche quando questa forse non c’è, ma emerge dalle tele con la sua forza a volte cupa, a volte contrastante, di mare e di pietra. Natura e città costrette in un abbraccio vitale, ma stridente, a volte soffocante, pietroso, lapidario, in un’apparente staticità che svela improvvisi guizzi di vita sanguigna.

Domando alla pittrice: “Quanto amore c’è per Palermo in queste opere?”. Mi risponde che c’è tanto, tantissimo amore, per Palermo e per la Sicilia. Mentre ad alta voce cerco di capire quali siano gli scorci rappresentati, mentre cerco di distinguere tra palazzi, monti, cieli, gru, per ritrovare i luoghi esatti, lei dice: “non riproduco, non copio luoghi, le mie sono delle impressioni o meglio il ricordo di luoghi che ho visto”. Quelli rappresentati sono infatti scorci di Sicilia filtrati dalla memoria dell’artista, non c’è panorama che esista realmente, ma tutti i luoghi allo stesso modo esistono e sono veri.

Le tele esposte sono interessanti. Spazi pieni, pieni di case, pieni di muri, di porte, di tetti, di forme e geometrie, pieni di palazzi e finestre, di acqua e pietra. Sono equilibrate, non ci sono vuoti, ma niente è superfluo. Non ci sono ampiezze, ma nemmeno costrizioni. C’è il mare, l’acqua che è elemento della natura ed il cemento delle case create dell’uomo, che è assente-non assente. L’acqua, solida e materica come la pietra, si fonde con questa diventando un unico corpo. Tutto quello che appare è mediterraneo, ma è una differente visione del Mediterraneo. Diversa ma vera, esistente anch’essa, anche se meno convenzionale. Mancano i colori con cui è rappresentato usualmente questo territorio, colori forti, solari, sgargianti. Qui c’è un’aria fredda, c’è l’atmosfera dell’alba che colora tutto di un chiarore soffuso, l’aria dell’imbrunire quando il cielo comincia a scurire e la luce lascia spazio a nuove ombre, minori contrasti, piccoli bagliori. C’è il tramonto nel momento in cui sta per svanire, veloce come il sole che soffoca dentro al mare, creando dei colori caldi, ma profondi. C’è il bagliore accecante di certe giornate afose quando il cielo e il mare sembrano quasi bianchi. Ci sono le suggestioni dell’inverno, perché anche il rovente Mediterraneo ha i suoi freddi che gelano l’anima, ha la sua sfera melanconica ed introspettiva. Perché non sempre tutto è colore e vociare, a volte è silenzio.

E tra le gru dei cantieri navali, tra le le barche del porto, un porto che non so più riconoscere, perchè forse è uno dei tanti che dimorano da sempre nella mia mente e che si risveglia in queste nuove osservazioni di visioni suscitate dall’arte, c’è una barca arenata, è quella barca che trasporta esseri umani, è forse uno dei relitti che campeggiano nelle rive di Lampedusa. In questo quadro, che tra tutti è l’unico dove un brandello di giornale incollato alla tela ci mostra la presenza di esseri umani, emerge che il Mediterraneo è molto di più di quello che solitamente ci viene raccontato o che vogliamo vedere. E’ porta chiusa e dischiusa, è pietra tombale, è lacrime, è speranza, è rinascita, è vita. E’ tra Acqua di Pietra e Pietra d’Acqua, la vita c’è.

La mostra è visitabile fino al 12 novembre 2016 presso la Galleria d’Arte Studio 71, in Via Vincenzo Fuxa n. 9 a Palermo, dalle ore 16.30 alle 19.30 tutti i giorni escluso i festivi.

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“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”- mostra fotografica di Pino Manzella

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Pino Manzella nella mostra intitolata “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” espone una sequenza di fotografie scattate a partire dagli anni ’70 all’interno di alcuni cimiteri tra cui il Père Lachaise e quello di Montparnasse a Parigi, il Nuovo e il vecchio cimitero ebraico di Praga, il cimitero di Racalmuto e la contrada Caos ai confini tra Agrigento e Porto Empedocle dove nacque e giace Pirandello.

Un reportage che rappresenta un interessante documento storico della vita, della morte e della memoria di alcuni importanti protagonisti della cultura e dell’arte: Guillaume Apollinaire, Honoré de Balzac, Charles Baudelaire, Boris Vian, Eugène Delacroix, Paul Éluard, Franz Kafka, Amedeo Modigliani, Yves Montand e Simone Signoret, Oscar Wilde, Jim Morrison, Édith Piaf, Luigi Pirandello, Marcel Proust, Raymond Roussel, Jean-Paul Sartre e Leonardo Sciascia. Artisti resi eterni dalla propria opera e che continuano a esistere in chi tramite l’amore per la cultura non li lascia morire.

Ci vuole del coraggio e una certa dose di ironia per parlare di morte e ancor più per fotografare tombe, ma soprattutto ci vuole un forte amore per la vita e per l’arte, come quello che da sempre caratterizza l’opera di Pino Manzella che, come pittore ha sempre messo al proprio centro la memoria, come elemento da custodire e far rivivere nel presente, trasformando i lasciti del passato in nuova vita e arte per il futuro. Pino Manzella con curiosità e ispirazione ha negli anni “frequentato” alcuni cimiteri per andare a visitare i feretri dei suoi artisti ispiratori. Quando era da solo, in viaggio, ricercava le tombe di scrittori, pittori, artisti, poeti come in un bisogno di catarsi, di dissacrazione e meditazione sulla vita. In un’intima necessità di riappropriarsi della grandezza della storia e dell’arte, per cogliere la relatività dell’esistente e sentirsi parte di una vicenda collettiva, di un flusso di idee, immagini, creatività, arte che va oltre i confini del tempo ed appartiene a tutti.

Osservando questi scatti scopriamo storie sepolte ormai nell’infinito di un tempo mai perduto. C’è l’antico cimitero ebraico di Praga, che è stato per oltre trecento anni, a partire dal XV secolo, l’unico luogo dove gli ebrei di Praga potevano seppellire i propri morti. Il cimitero non poteva ampliarsi al di fuori di quel perimetro, sopperirono alla mancanza di spazio sovrapponendo le tombe e le lapidi, creando un’atmosfera lugubre e incantevole allo stesso tempo, che racconta la precarietà della vita e l’affastellamento sincopato delle esistenze e dei ricordi. Durante l’occupazione tedesca, le autorità naziste decisero di lasciarlo come testimonianza di un popolo estinto, o meglio, che volevano estinguere.

Il racconto di Pino Manzella continua con la tomba di Amedeo Modigliani, che ci narra uno struggente amore, quello vissuto con Jeanne Hébuterne,  giovanissima compagna, pittrice e modella dei suoi quadri, che il giorno dopo la morte del suo amato, al nono mese di gravidanza, si lanciò dalla finestra del suo appartamento. Adesso è sepolta accanto a Modigliani, il suo epitaffio recita: “Devota compagna sino all’estremo sacrifizio”. C’è poi il sepolcro di Raymond Roussel, insoddisfatto a causa dei continui insuccessi, fu trovato morto nella camera del Grand Hotel Delle Palme a Palermo e sepolto a Parigi. C’è la tomba di Kafka che illuminata da un fioco raggio di sole emerge dall’oscurità e dalla vegetazione. Una lapide alla base della stele funeraria commemora le tre sorelle dello scrittore, morte nei lager nazisti fra il 1942 e il 1943. Kafka, sconosciuto durante la sua vita, divenne famoso subito dopo la morte. Ci sono Yves Montand e Simone Signoret sepolti insieme, in ricordo di un grande amore che li unì nella vita e nell’arte. C’è Jean-Paul Sartre, al cui funerale presenziarono cinquantamila persone, nella foto di Pino Manzella era ancora solo nella sua sepoltura, mentre oggi insieme a lui c’è la compagna e filosofa Simone de Beauvoir, morta nel 1986. Dopo la dipartita di Sartre, la De Beauvoir scrisse: “la sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà. È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo”. C’è Boris Vian in una tomba senza nome e senza foto, metafora della vita di un artista eclettico e sopra le righe, che non ebbe il riconoscimento che gli era dovuto. C’è la tomba di Jim Morrison che a Parigi è meta di pellegrinaggio di tanti giovani, Pino Manzella in una foto degli anni ’70 la ritrae attraverso lo sguardo di un giovane che osserva il suo mito e di un altro ragazzo che guarda malinconico nel vuoto. C’è, in una delle foto più recenti, la tomba di Pirandello ad Agrigento. Lo scrittore siciliano era sepolto sotto un pino che purtroppo non esiste più a causa del nubifragio del ‘97, Pirandello così aveva chiesto “… sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti dove nacqui”.

C’è la foto dell’essenziale tomba di Sciascia nel cimitero di Racalmuto, sullo sfondo si scorge una vecchietta in abito scuro che piange il suo lutto dinanzi la sepoltura di qualche parente a noi sconosciuto, a ricordare che i cimiteri sono luoghi collettivi, ma anche di solitudini, dove chi rimane saluta col proprio pianto chi lì vi dimora eternamente, come se quelle spoglie potessero riscaldarsi ancora al calore delle amate lacrime, come se quel pianto sopra una lapide potesse lenire il dolore di chi rimane, e il ricordo essere il prolungamento di una vita terrena finita. La memoria a volte sa essere vivida e stridente come una lama che affonda nel dolore o può essere labile e svanire come i contorni di un volto che non vedi e non sfiori più da tempo, che va sfocandosi, come una vecchia fotografia di cui i colori si dissolvono nel tempo o come un sogno di cui al risveglio rimane solo l’essenza, ma non la nitidezza. Saper mantenere, coltivare, custodire un ricordo, che è presenza ed assenza allo stesso tempo, è lotta interiore con se stessi, i cimiteri spesso sono luoghi dove combattere questa triste battaglia, come quelli ritratti in queste foto. Luoghi non luoghi, perchè senza tempo e nel tempo infinito, spaventano perché con la loro presenza ci rammentano che la morte esiste, ed appartiene all’umanità tanto quanto le appartiene la vita, ma allo stesso tempo ci rinfrancano rammentandoci che non c’è mai fine in questo continuo e comune fluire di esistenze.

Il titolo di questa mostra sta nell’effige della tomba di Sciascia, in omaggio al grande scrittore siciliano di cui Pino Manzella ha dipinto diversi ritratti. “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, una criptica riflessione sulla vita terrena, una frase ermetica che offre dubbi sulla possibile esistenza di un al di là, ma che lascia un messaggio all’eternità: il casuale passaggio in questo nostro pianeta, che sia in punta di piedi, ricordato o dimenticato, reso imperituro dall’arte o solo da un sorriso di chi ci ha amati, ha un senso che non possiamo non inseguire.”

Evelin Costa

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La mostra sarà inaugurata Domenica 30 Ottobre 2016 alle ore 18.00 al Margaret Cafè di Terrasini (PA) in Via V. Madonia 93, promossa e curata dall’ass.ne Asadin con la mia collaborazione. La mostra sarà presentata dalla Prof.ssa Lavinia Spalanca che curerà anche la selezione di alcuni testi e poesie sul tema che saranno letti durante l’inaugurazione. La mostra sarà visitabile presso la sala espositiva del Margaret Cafè fino al 19/11/2016 tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00.

 

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Mostra di Ketevan Jorjoliani al Margaret Cafè

 

Ketevan Jorjoliani è una giovane artista nata in Georgia nel 1991. Si è laureata nel 2013 all’Accademia di Belle Arti di Tbilisi, in Design della Moda. In quegli anni ha studiato arte pittorica nell’atelier del pittore georgiano Gia Khutsishvili. Dal 2015 è iscritta al biennio di pittura all’Accademia di Belle arti di Palermo. Collabora con la casa editrice Corrimano Editore dal 2014 per la quale crea le illustrazioni delle copertine.

La sua mostra nasce da una serie di schizzi realizzati osservando l’architettura urbana di Palermo, una serie di scenari particolari che si combinano tra loro creando una visione d’assieme, come in un puzzle che si trasforma nel racconto di una città complessa, variegata e contraddittoria come Palermo. L’autrice trae ispirazione dalla città e soprattutto si lascia attraversare dalla sua forza vitale che trasfonde nelle tele dipinte, nelle quali le figure sono stravolte creando nuove forme. Le geometrie segnate da tratti netti e a volte nervosi creano nuove immagini in un viaggio tra il formale e l’informale. Gli ambienti descritti sono semplificati in sagome scomposte, composte e ricomposte, dando vita a metamorfosi, mutamenti e creando luoghi poetici che ricordano sogni atavici e ancestrali. Le strade si intersecano e convergono con le case e con elementi della natura, creando particolari collage, sembrano non seguire schemi simmetrici, rendendo un certo dinamismo nelle immagini che a volte è come se volessero esplodere fuori dalla tela, verso l’esterno. I colori sono tenui, a momenti sfumati, prevalgono i pastelli, ma sono presenti alcuni contrasti. Improvvise si stagliano tinte forti che colpiscono lo sguardo. Le linee dei contorni rimangono visibili, a volte più leggere, altre più forti, come esplosioni vigorose di anima ed energia, raggi di cielo e scaglie di sole, che esprimono e raccontano una città arsa dal calore, caotica, accogliente e viva, la cui passionalità intrinseca in se stessa permea l’artista che la dona a chi osserva.

La mostra di Ketevan Jorjoliani potrà essere visitabile presso la sala espositiva del Margaret Cafè fino al 22 Ottobre, tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00. L’evento è promosso dall’ass.ne Asadin.

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Alcune foto della presentazione della mostra e della presentazione del libro di Ruska Jorjoliani sorella della pittrice e scrittrice di talento avvenuta il 2 Ottobre 2016, presente anche Dario Ricciardo di Corrimano Edizioni

 

Mostra collettiva “Caccia ai tesori”, a Palermo

Con Marga Rina, blogger palermitana appassionata di arte, ci conosciamo da diverso tempo tramite i reciproci blog ed i social network e finalmente siamo riuscite a conoscerci anche di persona in occasione dalla mostra pittorica e fotografica di Asadin e Pino Manzella a Torre Alba a cui ho collaborato e che lei ha recensito nel suo blog.

Nel suo blog Panormitania  scrive recensioni e racconta le sue “passeggiate artistiche”, il filo conduttore dei suoi articoli è Palermo e la Sicilia.

Marga Rina organizza una mostra d’arte per la terza volta, l’inaugurazione sarà Giovedì 20 ottobre 2016, alle ore 18:30, negli uffici della MQ Immobiliare di via Francesco Lo Jacono 10, a Palermo. Il titolo della mostra collettiva è “Caccia ai tesori” con una mirata selezione di opere pittoriche di Mimmo Papa, Roberto Fontana, Fabrizia Conti, Ilaria Caputo e Daniela Balsamo. Il titolo, come la stessa Marga Rina scrive nel suo blog, richiama “Le vie dei tesori”, la nota manifestazione palermitana giunta alla sua X edizione e della quale la MQ Immobiliare quest’anno è sponsor.

Sotto la descrizione della mostra che appare immediatamente interessante e ricca di sorprese.

Tema centrale dell’esposizione è la caccia di specifici tesori, che si sviluppa secondo un itinerario indiziario che il visitatore percorrerà sia fisicamente sia spiritualmente: sarà un vero e proprio viaggio votato alla ricerca di sé e al riconoscimento e svelamento delle aspirazioni individuali più intime e personali. Ogni artista, infatti, è stato chiamato a sviluppare per immagini un sottotema che enfatizzasse alcuni dei bisogni sentiti e anelati e, talvolta, sofferti, dell’uomo del terzo millennio.  Il percorso espositivo sarà articolato in tappe, cadenzate da indizi verosimili che avvicineranno poco alla volta il cacciatore – visitatore verso tesori cautamente visibili all’occhio interiore: ogni tappa sarà essa stessa un Tesoro dell’arte, rivelato in modo parziale o raggiunto come una dilaniante conquista e, nello stesso tempo, sarà come i sassolini di Hansel e Gretel raccolti i quali la via di fuga (o di uscita) sarà palesata. O forse no. Sarà il cuore dell’uomo a parlare e a dissipare le tenebre. L’itinerario espositivo sarà in tutto e per tutto metafora della vita coi suoi bivi, i suoi coni d’ombra, i suoi brancolamenti e le sue contraddizioni coesistenti con le sue rivelazioni e conquiste esistenziali, che pacificano l’anima e ne alimentano le energie.

Non mancheranno le distrazioni o le pseudo selve oscure, proprio come i frondosi rami che l’altera Diana di Ilaria Caputo possiedono con mani ferme e sguardo altero all’inizio del percorso e che accoglierà il visitatore all’inizio del percorso. L’itinerario espositivo apparirà ora come un gioco, ora come un rito iniziatico, ora come una via a tratti tortuosa e piena di insidie, come evocano le anime nude ritratte da Roberto Fontana o gli equilibri incerti affioranti come scogli dal mare di fragilità di Mimmo Papa: solo al termine del percorso le tenebre interiori si diraderanno, lo sguardo delle figure femminili di Daniela Balsamo e Fabrizia Conti sarà fermo e ritto verso la meta, sarà rivolto alla chiave della Verità, la chiave che aprirà la porta verso quella meta interiore e che conferirà senso a ogni umana azione terrena.”

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La mostra sarà visitabile fino al 4 novembre 2016, dal lunedì al venerdì, dalle 17 alle 20, a ingresso gratuito.

Per info inviare un’e-mail a panormitania@gmail.com o visitare la pagina Facebook dedicata alla Caccia ai Tesori (https://www.facebook.com/events/1826740497609588/).

L’incontenibile leggerezza di Enzo Sciavolino

Sabato 17 Settembre è stata inaugurata la mostra di Enzo Sciavolino presso la Galleria d’arte Studio 71 in Via Vincenzo Fuxa, 9 a Palermo.

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La mostra composta da 35 incisioni ed una scultura di bronzo è stata curata e presentata dal critico d’arte e scrittrice Vinny Scorsone. Il momento dell’inaugurazione, durante il quale oltre all’artista e alla curatrice sono intervenuti il gallerista Francesco Marcello Scorsone, Gonzalo Alvarez Garcia e Aldo Gerbino, è stato molto partecipato, come una festa che ha avvolto Sciavolino di calore, affetto, stima e amicizia.

Vinny Scorsone che ha presentato la mostra, nel suo testo introduttivo scrive: “Quello che Sciavolino compie con questa mostra è un viaggio all’interno del proprio percorso artistico segnando differenze e affinità tra ciò che è stato e ciò che è divenuto. Gli stessi temi, negli anni, hanno subìto una trasformazione. Se, difatti, in principio l’elevazione verso le sfere celesti era affrontata in maniera utopica e veniva frenata da una realtà soffocante e cupa, negli ultimi decenni, invece, essa è riuscita a distaccarsi dalle grettezze della vita quotidiana per tendere a qualcosa di più eterno e atemporale.”

Vinny Scorsone ci guida in un viaggio all’interno di un diario di più di cinquant’anni di attività, costituito dalle opere di Sciavolino, un percorso artistico i cui temi sono spesso ricorrenti, ma che si sono trasformati stilisticamente e contenutisticamente col passare degli anni. Cambiano i tratti e le linee, prima più aspre ed ora più morbide, anche i colori, più scuri nella prima produzione, adesso divengono vividi, aperti. Prevalgono gli azzurri. Ci racconta di come preponderante nella produzione artistica di Sciavolino sia il volo. L’angelo che nel passato era un Icaro cadente, nelle opere più recenti comincia a librarsi verso l’alto. Nel passato c’era l’utopia, nel presente la verve polemica che caratterizza le opere e la personalità di Sciavolino, rimane presente, ma si è attenuata ed è diventata più dolce. Il suo tratto, conclude Vinny Scorsone, ora è “più ricco di amore e desideroso di armonia. L’opera di Enzo Sciavolino è portatrice di armonia, che forse è l’unico modo, l’unico mezzo che abbiamo per salvare noi stessi e questo mondo che sta andando allo sfacelo”.

Interviene subito dopo Enzo Sciavolino riprendendo la frase di Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”. Ci dice: “Ho molto meditato su questa frase, anche aiutato dalla inafferrabilità della verità poetica, frequentando poeti come Gonzalo Alvarez Garcia, come Aldo Gerbino, che sono qui e li ringrazio per la loro presenza, e scrittori come Tahar Ben Jelloun, che scrive anche poesie, come Vincenzo Consolo, Carlo Levi ed altri. Lungo il mio viaggio, che ormai dura nell’arte da quasi sessanta anni, ho incontrato, ho avuto la fortuna di cercarli e trovarli questi preziosi amici e compagni di viaggio verso la poesia, perché per me la poesia è la verità, è quell’arte inafferrabile, ma è anche presente, afferrabile. Questo non vuole essere un controsenso, è come la musica, non c’è cosa più astratta, più lontana della musica, però ti commuove, la senti dentro, e così è la poesia. Ogni artista penso, questo è il mio credo poetico, deve tendere alla verità, che è la poesia. Vi ringrazio e spero che apprezziate il mio lavoro che sia vademecum per fare altro più importante ancora.

Le opere di Sciavolino ci proiettano proprio in un mondo di poesia e verità. Soavi e delicate, sognanti e lievi, ma contemporaneamente vigorose e sincere, dal significativo impatto visivo, mostrano il mondo per quello che è, in tutta la sua crudezza, ma anche le sue speranze e possibilità trasformative e salvifiche. Seguendo il tracciato indicato da Vinny Scorsone, si scorge immediatamente la continuità e contemporanea discontinuità tra passato e presente in Sciavolino. Se nel passato a prevalere è la bicromia del bianco e nero, nel presente cambiano le atmosfere, i colori, i tratti.  Perché è la realtà che è mutata. Cambia l’uomo, cambia l’artista e cambia anche la sua opera. Le incisioni realizzate durante gli anni ’60 e gli anni ‘70 rappresentano uno sguardo lucido sulle asprezze del mondo. C’è la denuncia del malessere sociale, c’è la Torino industriale con tutte le sue contraddizioni. L’uomo macchina è rappresentato da una testa vuota sorretta da una morsa, svuotato di identità e strangolato da una garrota franchista che gli impone l’estrema sentenza di morte, erano anni in cui questo avveniva in una dittatura così poco distante dall’Italia.

E’ questo un tempo di grandi tormenti, di speranze generazionali e di classe. Guerre, totalitarismi, lotte armate. Ancora le classi sociali apparivano ben definite ed in evidente antinomia tra loro. Anni di grandi passioni, scontri, illusioni e disillusioni. L’utopia era rivoluzionaria, “solo il movimento poteva cambiare la storia”. Anche il Marxismo, ormai sclerotizzato e politicizzato, andava rivisto, messo in discussione, reinventato. Sciavolino non a caso, andando a Parigi, diventa amico del filosofo francese Althusser che voleva “liberare” Marx dalla polvere che la storia e l’ortodossia gli avevano depositato addosso, tra cui le incrostazioni malefiche dello stalinismo.

Sciavolino in tutte le sue opere rappresenta il volo, che però negli anni 70 è precipitazione, è un volo verso il baratro della condizione umana. C’è l’operaio che cade da un’impalcatura a rammentare quelle così dette “morti bianche”, simbolo del lavoro che aliena l’uomo trasformandolo in un numero, svilito e disumanizzato, un nome senza identità in un elenco, anche mortuario.

C’è la seduzione delle armi, rappresentata in una pistola posta su un vassoio, il simbolo negativo di una lotta fallace che ha usato gli stessi mezzi di ciò che voleva combattere. La speranza c’è, è nel bisogno di cambiamento, nell’amore paritario e condiviso, nell’ armonia tra i generi, nel bacio, nell’ulivo inciso che sembra tenuemente acquarellato e nella musica suonata da un violinista, poeta di un’arte che libera. C’è la ricerca dell’equilibrio, l’instabile binomio tra reale e utopia, la crisi dell’idealità. “Il giocatore di perle” fa pensare al romanzo filosofico fantasy di Herman Hesse, “Il giuoco delle perle di vetro”, in cui l’autore immaginava una futura società utopica costituita da intellettuali distanti dalla società del passato, decadente e oscura, dediti a un gioco “perfetto”. Il protagonista stanco di quel gioco e di un mondo ideale e che troppo si era astratto dalla realtà, ascolterà la vita che con la sua continua evoluzione, lo richiama a sé. Torna così libero tra gli uomini con tutti i rischi che questo comporta, anche la morte. Diceva Hesse “Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo”.

Una presenza costante nelle opere in mostra è la colomba della pace, il cui volo questa volta è ascesa. La concezione della vita di Sciavolino potrebbe essere racchiusa in una delle sue opere in cui è semplicemente delineato “l’uovo”, all’interno del quale si vedono due mani che lo rompono. La vita e la morte sono già in embrione prima ancora che la vita nasca. E’ la sintesi che contiene la sua affermazione, il suo sviluppo e la sua stessa negazione. Vita e morte in un unico nucleo, che è il fulcro dell’esistenza dove tutto è ciclico. Come lo è forse della vita, questo sembra anche il senso dell’arte: nel nucleo primordiale della materia sta già l’idea dell’opera che nascerà, e forse prima o poi muterà e deperirà, creando altro. Michelangelo diceva a tal proposito: “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla” ed anche: “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”. Forse non è un caso che Sciavolino abbia usato quello stesso marmo bianco estratto dalle Cave Michelangelo di Carrara.

Nella produzione attuale si percepisce che il mondo è cambiato, anche se è sempre uguale, costanti rimangono guerre, mortificazioni, sofferenze, lotte e amore. L’artista sembra non smettere mai di domandarsi: “in che modo posso cambiare il mondo?”, “In che modo la bellezza può cambiare il mondo?”. E se per Dostoevskij la bellezza da inseguire era la compassione, “quella che ci porta all’amore condiviso con il dolore”, in Sciavolino la risposta è la poesia. L’utopia da lotta diventa sogno, si fa leggerezza, levità, cura alle ferite di una società sofferente. Armonia e ricerca di pace, anche interiore. E’ pace che trasmettono le opere attuali dell’artista di Valledolmo. Sono presenti tanti simboli positivi, l’uccellino, il cavalluccio marino, il melograno. C’è la neve e la luce, della ragione forse, entrambe portatrici di verità. La verità si confronta costantemente con le maschere imposte dalla società, in una pirandelliana ricerca della vera essenza dell’essere umano, sempre al centro della produzione di un artista interessato visceralmente alla “condizione umana”. Una maschera tridimensionale, che appare scolpita come fosse una di quelle che si adoperavano nel teatro antico è l’autoritratto dell’autore, intitolata per l’appunto “Is sum qui faciam”.

Anche l’amore in una delle incisioni si fa maschera, in un bacio, che nel suo intreccio ricrea un unico volto, ma è una maschera. L’amore salvifico si esprime nella madre che allatta, nel fiore donato, in un volo verso l’alto, nell’infanzia con il suo sguardo sognante che offre l’unica speranza alla pace, nel viaggio verso l’orizzonte, in un angelo umanizzato che non è più quell’Icaro cadente, ma che libero si abbraccia all’albero della vela di una fragile barchetta di carta ed è anche il putto di bronzo che si inerpica verso l’alto nella scultura intitolata “Incontenibile leggerezza”, la cui materia apparentemente pesante non è mai in contraddizione con il suo titolo.  L’angelo con le sue ali vola perché è forse nel sogno dell’idealità, che mai è metafisica, che si nutre la speranza di cambiamento per l’essere umano.

In un breve scambio subito dopo l’inaugurazione, domando all’artista come mai avesse scelto come simbolo proprio l’angelo, che è comunque una immagine religiosa, ma che in questo caso probabilmente nulla ha di religioso. Mi risponde che non c’è nessun legame con la religione: “Credo nell’uomo e nell’umanità, anche se a volte l’uomo può essere una bestia, un animale. Però nell’uomo c’è qualcosa che lo può migliorare, c’è sempre la speranza che cambi”. Gli domando se le maschere sono un richiamo a Pirandello, mi dice che ha molto studiato ed indagato Pirandello. A partire dall’immagine dell’operaio che precipita in basso da una impalcatura ed a quella che rappresenta i partigiani, gli chiedo se è vero che nelle opere del passato sia più presente l’utopia intesa come rivoluzione, mentre adesso c’è più l’utopia intesa come sogno. Risponde che quando ha cominciato a lavorare a Torino ha molto frequentato la classe operaia, quella che oggi non esiste più. Una classe operaia in quegli anni più cosciente, non c’era razzismo, mi dice, loro non erano razzisti verso gli emigranti, ad esempio i siciliani emigranti come lui. Questo non avveniva soltanto perché sentivano la vicinanza empatica con chi era segnato da un comune destino difficile, ma perché erano persone più consapevoli.

Rifletto quindi sul compito ed il contributo di un artista che cerca la verità, che alimenta la coscienza e il sogno di un mondo più a misura umana, che anche se a volte perde o vacilla, mantiene sempre quel soffio leggero, che è speranza e ricerca di verità, fiducia nell’umanità, nella bellezza e nell’arte, uniche risposte alla barbarie del presente, che hanno la potenzialità di creare armonia, di pacificare, come pacifica una musica che ti commuove o il verso di una poesia.

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La mostra sarà visitabile fino al 3 ottobre 2016 tutti i giorni, festivi esclusi, dalle ore 16.30 alle 19.30 galleria d’arte Studio 71 via Vincenzo Fuxa n. 9 – 90143 Palermo tel. 091 6372862.

Le foto dell’evento sono di Maria Pia Lo Verso, le foto delle incisioni sono tratte dal sito http://www.enzosciavolino.it

Inaugurata a Terrasini la mostra SICILIE–L’identità molteplice di Pino Manzella e ass.ne Asadin

E’ visitabile a Terrasini (PA), fino al 26 Agosto 2016, la mostra pittorica e fotografica intitolata “SICILIE–L’identità molteplice”, ospitata dalla splendida cornice offerta da Torre Alba, una delle suggestive torri costiere di Sicilia, che si eleva su una falesia di marne rosse tra Cala Rossa e Cala Bianca.

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Esposti cinquanta dipinti che rappresentano la Sicilia nelle sue molteplici sfaccettature, tutti realizzati da Pino Manzella, pittore nato a Cinisi, che ha cominciato a disegnare fin dai primi anni Settanta all’interno delle attività politiche e culturali animate da Peppino Impastato, che si svolgevano nel Circolo Musica e Cultura e poi a Radio Aut, tra Cinisi e Terrasini. Le sue inizialmente erano vignette e manifesti, negli anni a seguire la sua pittura, ricca di riferimenti letterari e messaggi da decodificare, si è fatta veicolo tra la memoria ed il presente, già attraverso la scelta di dipingere su carte antiche, recuperate dal pittore nelle bancarelle dei mercati popolari, con lo scopo di non incasellare il passato in un tempo che non c’è più, ma di trasformarlo in linfa per un futuro di cambiamento.

A queste “Sicilie” dipinte da Pino Manzella si affiancano le fotografie dei soci dell’Associazione Asadin, che si sono ispirati ai quadri, sviluppandone alcuni elementi, creando così tra dipinto e foto dei piccoli miracoli di sintonia, che non smettono mai di emozionare chi li osserva. L’Associazione Asadin, che ha curato la mostra, è stata fondata a Cinisi (PA) nel 2007 da un gruppo di fotografi amatoriali e da allora la sua attività, che si svolge principalmente tra Cinisi e Terrasini, si caratterizza per l’impegno verso tematiche rivolte alla salvaguardia del territorio, all’affermazione dei diritti umani e dell’equità sociale.

L’inaugurazione della mostra è avvenuta domenica 7 Agosto. Più di trecento i partecipanti accolti da uno dei meravigliosi tramonti che si affacciano sulla splendida costa terrasinese, nell’atmosfera davvero suggestiva di Torre Alba. Grandi emozioni hanno suscitato queste Sicilie in mostra che hanno la forza di coinvolgere e toccare le corde più intime degli isolani che vivono in prima persona il racconto dolce amaro narrato dai dipinti e dalle foto, ma anche i non siciliani che, comunque, non possono non sentire propria la storia di una terra così importante e viva in tutte le sue contraddizioni.

La serata di inaugurazione della mostra e presentazione del relativo catalogo, è stata condotta da Emanuela Schirru, sono seguiti gli interventi del Sindaco di Terrasini Giosuè Maniaci e del direttore artistico del Comune di Terrasini Vincenzo Cusumano, che hanno fortemente voluto che questa mostra, patrocinata dal Comune di Terrasini, fosse presente nella splendida location di Torre Alba finalmente riaperta al pubblico con la nuova veste di luogo di arte e cultura. E’ intervenuto poi Giovanni Impastato per Casa Memoria Impastato Edizioni, Vinny Scorsone, scrittrice e Critico d’arte, il cui testo è inserito nel prezioso catalogo, Evelin Costa socia dell’associazione Asadin ed infine il Pittore Pino Manzella, che ha concluso l’intervento dicendo che nella mostra manca una Sicilia, quella che ha dentro uno specchio dove ognuno di noi può rivedersi e riconoscersi.

Davvero grande è stato l’abbraccio degli intervenuti al pittore Manzella ed ai fotografi Asadin e tante le riflessioni e le emozioni che sono scaturite dal tema della mostra. Come scrive Umberto Santino nella presentazione del catalogo, qui c’è “la Sicilia, o meglio le Sicilie, con tutte le sue contraddizioni, con i suoi miti e i suoi stereotipi ma pure le sue semplici, quotidiane, umili e preziose speranze-certezze”. Quello delle Sicilie, sottolinea Giuseppe Viviano curatore del catalogo della mostra, “è un progetto ambizioso e complesso, e per questo affascinante, intorno a un’isola che non ha eguali […] terra di miti e di contrasti, di mafia e di antimafia, meta di arrivi e di partenze, luogo di speranze e di sogni infranti, centro di potere e di speculazioni, crogiolo e mosaico di culture, terra di conquista, di agrumi, di sale e di fuoco, teatro di pupi e di pupari, di carretti e malaffare, di mostri e di dèi…”. Non si può non rimanere affascinati da una terra come la Sicilia e da una mostra che la racconta per quella che è.

 

La mostra è visitabile fino al 26 Agosto 2016 dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 23.00, presso Torre Alba, nel Lungomare Peppino Impastato a Terrasini (PA).