Sabato 17 Settembre è stata inaugurata la mostra di Enzo Sciavolino presso la Galleria d’arte Studio 71 in Via Vincenzo Fuxa, 9 a Palermo.
La mostra composta da 35 incisioni ed una scultura di bronzo è stata curata e presentata dal critico d’arte e scrittrice Vinny Scorsone. Il momento dell’inaugurazione, durante il quale oltre all’artista e alla curatrice sono intervenuti il gallerista Francesco Marcello Scorsone, Gonzalo Alvarez Garcia e Aldo Gerbino, è stato molto partecipato, come una festa che ha avvolto Sciavolino di calore, affetto, stima e amicizia.
Vinny Scorsone che ha presentato la mostra, nel suo testo introduttivo scrive: “Quello che Sciavolino compie con questa mostra è un viaggio all’interno del proprio percorso artistico segnando differenze e affinità tra ciò che è stato e ciò che è divenuto. Gli stessi temi, negli anni, hanno subìto una trasformazione. Se, difatti, in principio l’elevazione verso le sfere celesti era affrontata in maniera utopica e veniva frenata da una realtà soffocante e cupa, negli ultimi decenni, invece, essa è riuscita a distaccarsi dalle grettezze della vita quotidiana per tendere a qualcosa di più eterno e atemporale.”
Vinny Scorsone ci guida in un viaggio all’interno di un diario di più di cinquant’anni di attività, costituito dalle opere di Sciavolino, un percorso artistico i cui temi sono spesso ricorrenti, ma che si sono trasformati stilisticamente e contenutisticamente col passare degli anni. Cambiano i tratti e le linee, prima più aspre ed ora più morbide, anche i colori, più scuri nella prima produzione, adesso divengono vividi, aperti. Prevalgono gli azzurri. Ci racconta di come preponderante nella produzione artistica di Sciavolino sia il volo. L’angelo che nel passato era un Icaro cadente, nelle opere più recenti comincia a librarsi verso l’alto. Nel passato c’era l’utopia, nel presente la verve polemica che caratterizza le opere e la personalità di Sciavolino, rimane presente, ma si è attenuata ed è diventata più dolce. Il suo tratto, conclude Vinny Scorsone, ora è “più ricco di amore e desideroso di armonia. L’opera di Enzo Sciavolino è portatrice di armonia, che forse è l’unico modo, l’unico mezzo che abbiamo per salvare noi stessi e questo mondo che sta andando allo sfacelo”.
Interviene subito dopo Enzo Sciavolino riprendendo la frase di Dostoevskij: “la bellezza salverà il mondo”. Ci dice: “Ho molto meditato su questa frase, anche aiutato dalla inafferrabilità della verità poetica, frequentando poeti come Gonzalo Alvarez Garcia, come Aldo Gerbino, che sono qui e li ringrazio per la loro presenza, e scrittori come Tahar Ben Jelloun, che scrive anche poesie, come Vincenzo Consolo, Carlo Levi ed altri. Lungo il mio viaggio, che ormai dura nell’arte da quasi sessanta anni, ho incontrato, ho avuto la fortuna di cercarli e trovarli questi preziosi amici e compagni di viaggio verso la poesia, perché per me la poesia è la verità, è quell’arte inafferrabile, ma è anche presente, afferrabile. Questo non vuole essere un controsenso, è come la musica, non c’è cosa più astratta, più lontana della musica, però ti commuove, la senti dentro, e così è la poesia. Ogni artista penso, questo è il mio credo poetico, deve tendere alla verità, che è la poesia. Vi ringrazio e spero che apprezziate il mio lavoro che sia vademecum per fare altro più importante ancora.”
Le opere di Sciavolino ci proiettano proprio in un mondo di poesia e verità. Soavi e delicate, sognanti e lievi, ma contemporaneamente vigorose e sincere, dal significativo impatto visivo, mostrano il mondo per quello che è, in tutta la sua crudezza, ma anche le sue speranze e possibilità trasformative e salvifiche. Seguendo il tracciato indicato da Vinny Scorsone, si scorge immediatamente la continuità e contemporanea discontinuità tra passato e presente in Sciavolino. Se nel passato a prevalere è la bicromia del bianco e nero, nel presente cambiano le atmosfere, i colori, i tratti. Perché è la realtà che è mutata. Cambia l’uomo, cambia l’artista e cambia anche la sua opera. Le incisioni realizzate durante gli anni ’60 e gli anni ‘70 rappresentano uno sguardo lucido sulle asprezze del mondo. C’è la denuncia del malessere sociale, c’è la Torino industriale con tutte le sue contraddizioni. L’uomo macchina è rappresentato da una testa vuota sorretta da una morsa, svuotato di identità e strangolato da una garrota franchista che gli impone l’estrema sentenza di morte, erano anni in cui questo avveniva in una dittatura così poco distante dall’Italia.
E’ questo un tempo di grandi tormenti, di speranze generazionali e di classe. Guerre, totalitarismi, lotte armate. Ancora le classi sociali apparivano ben definite ed in evidente antinomia tra loro. Anni di grandi passioni, scontri, illusioni e disillusioni. L’utopia era rivoluzionaria, “solo il movimento poteva cambiare la storia”. Anche il Marxismo, ormai sclerotizzato e politicizzato, andava rivisto, messo in discussione, reinventato. Sciavolino non a caso, andando a Parigi, diventa amico del filosofo francese Althusser che voleva “liberare” Marx dalla polvere che la storia e l’ortodossia gli avevano depositato addosso, tra cui le incrostazioni malefiche dello stalinismo.
Sciavolino in tutte le sue opere rappresenta il volo, che però negli anni 70 è precipitazione, è un volo verso il baratro della condizione umana. C’è l’operaio che cade da un’impalcatura a rammentare quelle così dette “morti bianche”, simbolo del lavoro che aliena l’uomo trasformandolo in un numero, svilito e disumanizzato, un nome senza identità in un elenco, anche mortuario.
C’è la seduzione delle armi, rappresentata in una pistola posta su un vassoio, il simbolo negativo di una lotta fallace che ha usato gli stessi mezzi di ciò che voleva combattere. La speranza c’è, è nel bisogno di cambiamento, nell’amore paritario e condiviso, nell’ armonia tra i generi, nel bacio, nell’ulivo inciso che sembra tenuemente acquarellato e nella musica suonata da un violinista, poeta di un’arte che libera. C’è la ricerca dell’equilibrio, l’instabile binomio tra reale e utopia, la crisi dell’idealità. “Il giocatore di perle” fa pensare al romanzo filosofico fantasy di Herman Hesse, “Il giuoco delle perle di vetro”, in cui l’autore immaginava una futura società utopica costituita da intellettuali distanti dalla società del passato, decadente e oscura, dediti a un gioco “perfetto”. Il protagonista stanco di quel gioco e di un mondo ideale e che troppo si era astratto dalla realtà, ascolterà la vita che con la sua continua evoluzione, lo richiama a sé. Torna così libero tra gli uomini con tutti i rischi che questo comporta, anche la morte. Diceva Hesse “Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo”.
Una presenza costante nelle opere in mostra è la colomba della pace, il cui volo questa volta è ascesa. La concezione della vita di Sciavolino potrebbe essere racchiusa in una delle sue opere in cui è semplicemente delineato “l’uovo”, all’interno del quale si vedono due mani che lo rompono. La vita e la morte sono già in embrione prima ancora che la vita nasca. E’ la sintesi che contiene la sua affermazione, il suo sviluppo e la sua stessa negazione. Vita e morte in un unico nucleo, che è il fulcro dell’esistenza dove tutto è ciclico. Come lo è forse della vita, questo sembra anche il senso dell’arte: nel nucleo primordiale della materia sta già l’idea dell’opera che nascerà, e forse prima o poi muterà e deperirà, creando altro. Michelangelo diceva a tal proposito: “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla” ed anche: “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”. Forse non è un caso che Sciavolino abbia usato quello stesso marmo bianco estratto dalle Cave Michelangelo di Carrara.
Nella produzione attuale si percepisce che il mondo è cambiato, anche se è sempre uguale, costanti rimangono guerre, mortificazioni, sofferenze, lotte e amore. L’artista sembra non smettere mai di domandarsi: “in che modo posso cambiare il mondo?”, “In che modo la bellezza può cambiare il mondo?”. E se per Dostoevskij la bellezza da inseguire era la compassione, “quella che ci porta all’amore condiviso con il dolore”, in Sciavolino la risposta è la poesia. L’utopia da lotta diventa sogno, si fa leggerezza, levità, cura alle ferite di una società sofferente. Armonia e ricerca di pace, anche interiore. E’ pace che trasmettono le opere attuali dell’artista di Valledolmo. Sono presenti tanti simboli positivi, l’uccellino, il cavalluccio marino, il melograno. C’è la neve e la luce, della ragione forse, entrambe portatrici di verità. La verità si confronta costantemente con le maschere imposte dalla società, in una pirandelliana ricerca della vera essenza dell’essere umano, sempre al centro della produzione di un artista interessato visceralmente alla “condizione umana”. Una maschera tridimensionale, che appare scolpita come fosse una di quelle che si adoperavano nel teatro antico è l’autoritratto dell’autore, intitolata per l’appunto “Is sum qui faciam”.
Anche l’amore in una delle incisioni si fa maschera, in un bacio, che nel suo intreccio ricrea un unico volto, ma è una maschera. L’amore salvifico si esprime nella madre che allatta, nel fiore donato, in un volo verso l’alto, nell’infanzia con il suo sguardo sognante che offre l’unica speranza alla pace, nel viaggio verso l’orizzonte, in un angelo umanizzato che non è più quell’Icaro cadente, ma che libero si abbraccia all’albero della vela di una fragile barchetta di carta ed è anche il putto di bronzo che si inerpica verso l’alto nella scultura intitolata “Incontenibile leggerezza”, la cui materia apparentemente pesante non è mai in contraddizione con il suo titolo. L’angelo con le sue ali vola perché è forse nel sogno dell’idealità, che mai è metafisica, che si nutre la speranza di cambiamento per l’essere umano.
In un breve scambio subito dopo l’inaugurazione, domando all’artista come mai avesse scelto come simbolo proprio l’angelo, che è comunque una immagine religiosa, ma che in questo caso probabilmente nulla ha di religioso. Mi risponde che non c’è nessun legame con la religione: “Credo nell’uomo e nell’umanità, anche se a volte l’uomo può essere una bestia, un animale. Però nell’uomo c’è qualcosa che lo può migliorare, c’è sempre la speranza che cambi”. Gli domando se le maschere sono un richiamo a Pirandello, mi dice che ha molto studiato ed indagato Pirandello. A partire dall’immagine dell’operaio che precipita in basso da una impalcatura ed a quella che rappresenta i partigiani, gli chiedo se è vero che nelle opere del passato sia più presente l’utopia intesa come rivoluzione, mentre adesso c’è più l’utopia intesa come sogno. Risponde che quando ha cominciato a lavorare a Torino ha molto frequentato la classe operaia, quella che oggi non esiste più. Una classe operaia in quegli anni più cosciente, non c’era razzismo, mi dice, loro non erano razzisti verso gli emigranti, ad esempio i siciliani emigranti come lui. Questo non avveniva soltanto perché sentivano la vicinanza empatica con chi era segnato da un comune destino difficile, ma perché erano persone più consapevoli.
Rifletto quindi sul compito ed il contributo di un artista che cerca la verità, che alimenta la coscienza e il sogno di un mondo più a misura umana, che anche se a volte perde o vacilla, mantiene sempre quel soffio leggero, che è speranza e ricerca di verità, fiducia nell’umanità, nella bellezza e nell’arte, uniche risposte alla barbarie del presente, che hanno la potenzialità di creare armonia, di pacificare, come pacifica una musica che ti commuove o il verso di una poesia.
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La mostra sarà visitabile fino al 3 ottobre 2016 tutti i giorni, festivi esclusi, dalle ore 16.30 alle 19.30 galleria d’arte Studio 71 via Vincenzo Fuxa n. 9 – 90143 Palermo tel. 091 6372862.
Le foto dell’evento sono di Maria Pia Lo Verso, le foto delle incisioni sono tratte dal sito http://www.enzosciavolino.it