“A Persica cu vinu”, il mio bisnonno e gli ‘gnuri palermitani.

D’estate i palermitani amano mangiare fuori, frase con cui si può intendere il mangiare al ristorante  oppure… in balcone: sempre di stare fuori casa si tratta e per di più all’aperto, senza il bisogno di stordirsi con la cosiddetta aria confezionata.

Quando c’è caldo e si decide di mangiare all’aperto, in giardino, campagna, al tipico villino che la maggior parte dei palermitani possiede, o in extremis nel balcone di casa, serve qualcosa di fresco e dissetante, in questi casi l’ideale per i palermitani è una bella fetta di muluni, ma una valida alternativa è anche “a persica cu vinu” (la pesca col vino).

 persica cu vinu

La persica col vino piace tantissimo ai palermitani che infatti  la portano pure al Festino di Santa Rosalia, perché si “accoppia” bene con i babbaluci, è rinfrescante e gustosa e mangiare i pezzetti di pesca estraendoli dal bicchiere con la forchetta è una vera goduria.  In passato era un tipico cibo da taverna, veniva servita nelle cosiddette “cannate”, dei grandi boccali di vetro, e insieme alle uova sode, alle fave a cunigghiu, ai babbaluci, al mussu a stricasali etc, era uno dei cibi che fungeva anche da passatempo. Si innaffiava il tutto con litri di vino e si giocava al “tocco”, classico gioco che stimolava gli avventori a bere sempre di più. continua

I Biscotti Siciliani all’Anice e vari ricordi.

Prima di quest post, in un giorno da celebrare  come oggi, e in giornate molto tristi come quelle che in Italia stiamo vivendo, un ricordo alle vittime della strage di Capaci, dello sconvolgente attentato di Brindisi e del terremoto in Emilia.

Sperando che le idee di giustizia, libertà e onestà possano appartenere a tutto un popolo e non solo a pochi eroi che si sono sacrificati  per questo. Un saluto a uno di questi eroi, Giovanni Falcone e a chi gli stava vicino e lo proteggeva.

Continuando ad esplorare il sostanzioso mondo dei biscotti palermitani …

C’è un biscotto che tanti anni fa si trovava in  tutti i  forni della città e che ora non si vede quasi più, chissà perché.

Era un biscotto un po’ morbido che non ricordo nemmeno bene, non sono più sicura  di  rammentare la sua consistenza e nemmeno il gusto,  perché è trascorso tanto tempo e perché le cose ed in particolare i cibi dell’infanzia a volte assumono un ricordo e di conseguenza un sapore idealizzato, che mai più tornerà e mai più si potrà ritrovare… continua

Ghiaccio, bevande, zammù nella Palermo anni ‘50

Questo post è stato scritto da mia madre. Emilia Merenda

Chi è nato come me, dopo la seconda guerra mondiale e ha vissuto i primi anni dell’infanzia intorno al 1950, ricorderà certamente, quando si acquistava il ghiaccio.

L’uomo del ghiaccio ( u’ jaccialuoru ) passava per le strade con il suo carretto trainato dal cavallo, reclamizzando ad alta voce la sua merce (abbanniava jacciu, jacciu ). I bambini accorrevano e mangiavano i frammenti di ghiaccio, che si staccavano dal blocco, durante il taglio con il punteruolo.

Le famiglie più benestanti avevano la “jacciera”, una specie di piccola dispensa di legno con l’interno zincato, dove riponevano i cibi avanzati e l’acqua, per mantenerli al fresco. Quest’operazione si eseguiva in estate, con lo scopo principale, di mantenere l’acqua fresca per tutta la giornata. Non ci si poteva permettere di comprare grandi scorte di cibo, ciò che si acquistava era solo per l’uso giornaliero e chi non aveva la jacciera, metteva il pezzo di ghiaccio dentro una bagnarola di zinco, aggiungeva le bottiglie o qualcosa avanzata, ricopriva il tutto con una vecchia coperta e il risultato ottenuto, era lo stesso della ghiacciera.

Il ghiaccio lo acquistava l’acquivendolo (l’acqualoru ) per tenere al fresco le bibite. La sua bottega era un chioschetto e oltre a vendere l’acqua fresca con l’anice ( zammù ) in singoli bicchieri, preparava pure altri tipi di bevande: bibite d’amarena, menta, tamarindo e orzata, oppure vendeva gassose (azzusi) al limone o al caffè. Quando l’acqualoru metteva u’ zammù nel bicchiere, lo faceva in maniera veloce per evitare lo spreco di quel liquido “prezioso”, ma quando si comportava in maniera troppo parsimoniosa, “si rifardiava”, mio nonno molto ironicamente gli diceva: “Miih, c’abbuccò ‘a manu!” ( ha perso il controllo).

foto di Jan-Luc Moreau

Molti consumavano sul posto, qualcuno portava le bevande a casa e altri, chiamavano l’acqualoru dal proprio balcone e dopo avere abbassato il paniere, ( u’ panaru) lo ritiravano con la bottiglia piena d’acqua fresca o altro. In quel chioschetto c’erano diverse bottiglie multicolori che contenevano l’acqua di selz ( u’ sifuni ) e servivano per preparare le bibite frizzanti. Queste bottiglie si potevano “noleggiare” e dopo l’uso, si restituivano al commerciante.

C’era un metodo più economico per preparare altre bevande succulente: le bustine. Dentro la confezione di dette “ bustine” c’era tutto l’occorrente: una di polvere colore arancione, una fialetta di essenza d’arancia e una bustina di acido tartarico, che serviva a rendere l’acqua frizzante. Tutti questi elementi, seguendo la numerazione indicata, s’introducevano in una bottiglia a tappo ermetico (ca’ molla ), si agitava e dopo avere atteso alcuni minuti, si poteva bere il contenuto: una vera goduria. Questo compito richiedeva mano ferma ed esperta e generalmente veniva affidato al capo famiglia e a casa mia, toccava a volte al nonno o al papà. L’apertura del tappo a molla, era il momento più complicato: se veniva effettuato in anticipo, si rischiava l’uscita improvvisa dell’aranciata, che si sarebbe riversata sulla tovaglia, lasciando i commensali delusi. Ma se “l’operazione “ era eseguita nella giusta maniera, all’apertura del tappo, c’era un tripudio di risate.

Una sera mio cugino, ch’era il più grande dei nipoti, dopo molta insistenza, volle preparare l’aranciata. La sua mano era inesperta e quando aprì il tappo, dalla bottiglia venne fuori all’improvviso, un enorme fiotto di liquido arancione che andò a bagnare, perfino la parete di fronte.

Oltre al chiosco dell’acquaiolo, c’erano botteghe ( u’ vinaru o a’ tavierna ) che vendevano il vino “sfusu” (al dettaglio). Ogni acquirente portava con se la propria bottiglia e comprava: vino, marsala, vermouth, moscato e aceto. Alcuni uomini durante l’attesa, sorseggiavano un “bicchierino” e mangiavano uova sode. Quando si avvicinavano le feste oppure si attendeva la nascita di un bambino, si preparava in famiglia “u’ rosolio”. Erano dei liquori che si preparavano con l’essenza preferita, l’alcool e lo zucchero. I più richiesti erano: il mandarino, millefiori, caffè, menta e altri

In alcune zone di Palermo, c’è ancora qualche chiosco d’acqualoru, ma nel tempo si è rinnovato ed oltre alle bibite “classiche”, adeguandosi ai tempi moderni, ha aggiunto lattine e bottiglie di svariati tipi di bevande. Ma per quelli della mia età, rimane sempre il ricordo di quel lungo beccuccio, della bottiglia di zammù che, introducendosi nel bicchiere colmo d’acqua, provocava quella “miracolosa” colorazione biancastra, regalando al liquido un gusto meraviglioso. Nessuna bibita moderna, potrà regalarmi il fascino di quel semplice bicchiere, d’acqua e anice.