“La mostra “’Nzèmmula – Ritratti per la libertà” nasce da un’idea di Caterina Blunda, che si è andata, durante il lavoro di gruppo, arricchendo di spunti, visioni e riflessioni, più che una collettiva è da intendere come un lavoro di gruppo. Il progetto fotografico parte dall’esigenza di denunciare le violenze che ogni giorno le donne subiscono in tutto il mondo, attraverso immagini e frasi in vernacolo siciliano, a rafforzare l’identità linguistica e culturale, frasi “tatuate sui corpi” delle protagoniste e dei protagonisti di questi scatti. Anche nell’Occidente del mondo, dove le lotte femminili hanno migliorato la condizione della donna, la cultura dominante fa vivere la donna in uno stato di subordinazione rispetto all’uomo. Il corpo delle donne è ancora considerato un oggetto da controllare e strumentalizzare, la donna concepita come madonna o angelo del focolare, da venerare disumanizzandola, oppure come donna in carriera che deve imitare l’atteggiamento maschile anche nei suoi aspetti peggiori (questa a volte erroneamente è stata chiamata parità), o come la libertina da denigrare, o come la vittima da piangere. Tutte sfaccettature diverse di una stessa concezione che non riesce a vedere la donna come un essere intero, libero ed autodeterminato.
Le donne che decidono di fare scelte differenti da quelle ordinarie, le donne che non vogliono continuare una relazione, le donne che vogliono una propria indipendenza, sono spesso vittime di uomini, solitamente di ambito familiare, che non riescono ad accettare il rifiuto, a considerare la donna se non come una proprietà da controllare. Sono però vittime non solo del genere maschile, ma di una società tutta, che silenziosamente approva e finge di denunciare solo quando si presenta il caso di una donna uccisa da mano maschile, ma che al contempo ogni giorno condanna la donna quando non sottostà agli schemi della vita che le è stata “assegnata”. Le donne spesso sono vittime anche di se stesse, quando non riescono a distinguere l’amore dal possesso e rimangono prigioniere di relazioni distruttive e quando invece di solidarizzare tra loro diventano rivali e si condannano vicendevolmente, perché incapaci di immaginare un’alternativa, un cambiamento sociale e culturale.
Il sistema quando si erge a “difensore” delle donne, tende ulteriormente a vittimizzarle, a presentarle attraverso i mass media, come ferite, deboli, bisognose di qualcuno che le tuteli, che le protegga, e dalla protezione il passo verso il controllo e la sopraffazione è breve. Ne sminuisce così ulteriormente la forza e la capacità di autodeterminazione, di libertà e di scelta. Solo un cambiamento culturale che coinvolga tutti i generi migliorerebbe la vita di tutti, perchè una società non è veramente libera se una sua parte non lo è. Un discorso sulla violenza contro le donne serve quindi a sensibilizzare le donne, ma anche gli uomini, perché solo insieme si può cambiare la società.
E’ per questo che la mostra “Nzemmula-ritratti per la libertà”, pur partendo dalla condizione di sofferenza e di denuncia, non mette lividi e cicatrici nei visi delle donne e sceglie di rappresentare il riscatto, la rivoluzione della donna che vuole essere libera, che spezza le catene, rivendica la propria bellezza, dolcezza, forza, contraddizioni e complessità. Un viaggio che parte dalla denuncia della violenza sia fisica che psicologica di quello che avviene nella società attuale: “I paroli su petri”, “arsa r’amuri”; lo svelamento dell’illusione che concepisce come amore ciò che amore non è, perché se l’amore è scelta quotidiana di sostenersi, di costruire un futuro insieme, di comprendersi e valorizzarsi reciprocamente, ciò che mette al centro la gelosia soffocante, lo spirito proprietario dell’uno verso l’altro, la violenza al posto delle carezze, non può essere chiamato amore: “O mia o di nuddu”, “Pareva un pezzu ri pani”, sono la negazione dell’amore. Il viaggio continua nella voglia di affermazione di se, di rompere il silenzio, di spezzare la propria complicità con la mentalità patriarcale, di scegliere di essere se stessa: “a fimmina nun si tocca mancu c’un ciuri”, la donna finalmente con le forbici taglia un filo che le teneva “a vucca cusuta”, e dichiara: “sugnu chiossai, sugnu libirtà … e nun vogghiu chiù catini”. Per concludere la donna decide di rompere i muri fisici e virtuali che attanagliano la società, muri che separano i generi, muri di silenzio, di ignoranza, di paura, di razzismo, di separazione ed emarginazione: “Sdirrubbamu sti mura”, perché una società in cui le persone sono separate tra loro, se diverse, non è una società felice.
Si esprime quindi il coraggio delle donne che cercano di essere protagoniste della propria vita, di sostenersi tra loro, di cambiare in positivo la realtà, a partire dalle proprie facoltà di accoglienza, solidarietà e cura dell’altro. In questo percorso fotografico si è voluta mettere in risalto anche l’esistenza di una parte del genere maschile che non è violenta, brutale e opprimente, ma che vuole cambiare, che solidarizza con la donna, uomini che a volte sono vittime essi stessi del maschilismo. Quando non si allineano nel ruolo dei dominatori che decidono e comandano, vengono spesso bullizzati e ridicolizzati. Si raffigura quindi anche il coraggio di quegli uomini che decidono di mettere in discussione se stessi e i privilegi dell’appartenere a un genere finora avvantaggiato e dominante, scegliendo di solidarizzare con le donne e di mettere in campo la propria sensibilità, in contrapposizione alla violenza. Dall’uomo che cercando dentro se stesso si domanda se è “omu o bestia”, all’uomo riflessivo che vuole mettere fine al mutismo di genere: “Fussi ura ri parrarini!”, all’uomo che dona il suo amore senza pretendere nulla perché: “u cori nun s’accatta e nun si vinni, si runa”, all’uomo che sceglie di uscire dall’oscuro e afferma: “Putemu canciare”. Un’esigenza, quella di raffigurare gli uomini, che vuole sottolineare quanto la battaglia delle donne non sia una lotta delle donne contro gli uomini, ma di tutti contro il maschilismo, perché il cambiamento va fatto insieme, per la libertà e la ricerca dell’armonia tra i generi.
Nasce così e si sviluppa un connubio tra i quattro fotografi Caterina Blunda, Pino Manzella, Nicola Palazzolo e Massimo Russo Tramontana e i soggetti fotografati, dodici tra donne e uomini che hanno scelto di mettere in questo percorso comune la propria faccia, ma anche il proprio contributo ideale ed i propri pensieri. Otto donne e quattro uomini interpretati secondo le differenti visioni degli artisti, per affrontare un viaggio fotografico, di luci ed ombre, di equilibri e contrasti, di sguardi e gesti, parole e simboli, che partendo dalla sofferenza arrivi ad una più profonda consapevolezza di sé e ad una nuova relazione con l’alterità e la diversità.”