No Fixed Abode, mostra fotografica di Giuseppe Iannello

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I “No Fixed Abode” raccontati da Giuseppe Iannello sono alcuni giovani richiedenti asilo di Newport in Galles, ma potrebbero essere quelli approdati in un qualsiasi paese dell’Occidente del mondo. Sono i protagonisti di un personale viaggio di trasformazione e cambiamento, a cui la vita ed il sistema politico, economico e sociale hanno voluto togliere l’identità, riducendoli ad essere “senza volto” oltre che “senza terra”, “senza documento”, “senza fissa dimora”, perchè lasciati in attesa di uno status legale, che da ombre li faccia ridiventare reali. E pensare che è proprio in questi giovani protagonisti che vive la forza, il coraggio, la scintilla, quella passione che è a volte disperazione, altre è paura, ma soprattutto è speranza del cambiamento. In loro vive e pulsa quella capacità di compiere un viaggio, che è reale, ma che è anche una metafora dell’esistente.

Così questi ragazzi che hanno affrontato il viaggio simbolico e reale della vita, questi ragazzi che scappando, cercando, sperando e trovando, incarnano ciò che di più rappresenta l’essere vivi, vengono invece tristemente trasformati in anime senza corpo, in fantasmi senza nome, in numeri senza identità, in volti senza lineamenti e rappresentano la paura di tutti, la paura del diverso, lontano e sconosciuto.

E’ la privazione di identità che Giuseppe Iannello denuncia nelle sue foto. Ogni immagine è suddivisa in un trittico che è come un piccolo racconto, con al centro il viaggio della speranza, l’autoscatto del tragitto intrapreso da ogni protagonista/non protagonista. Ai margini c’è l’oggi, rappresentato da volti a cui è stato negato l’io e letti sfatti, perché il percorso a volte è cammino, a volte è sonno, attesa, inedia.

Affascinano e fanno pensare questi scatti che mostrano la vita dei no fixed abode. Tende velano poeticamente i loro volti mettendoci di fronte alla paura, la paura che si vive in paesi da cui si è costretti a fuggire, e ci mettono di fronte alla fatica della ricerca del sé, che non è mai scontata o immediata. Fumi, ombre, tende, veli sono i muri da superare. Luci mostrano luoghi/non luoghi, stanze desolate, dove piccoli particolari ci rivelano che al di là di un sistema che voglia omologare, appiattire, svuotare, privare di pensiero e vitalità, c’è comunque l’essenza della vita, quella che nessuno può togliere, nessuno può toglierci. Ed è così che realizziamo di essere tutti protagonisti di questa storia. Comprendiamo che il racconto di un viaggio altrui è anche il nostro viaggio, quel complesso viaggio che è la vita. E tutti quanti, spettatori, protagonisti, spaventati, indifferenti o solidali, siamo costretti a riflettere su noi stessi, sulla nostra storia intima e collettiva, su quello che eravamo, quello che siamo diventati e quello che possiamo essere.

Questa storia che ormai ci appartiene è la storia dell’umanità tutta, quella che è accomunata dall’istinto di sopravvivere, ma soprattutto di vivere, un istinto che ci rende uguali anche se siamo diversi.

Così quello specchio in frantumi che copre il viso di un giovane No Fixed Abode, in una delle foto di Iannello, rappresenta forse l’incapacità degli osservatori di riflettersi in ciò che si preferisce identificare come alterità, la stridente incapacità di guardarsi dentro per trovare una comune fragilità, perché la vita è precaria, anche quando così non appare, per tutti, non solo per il giovane richiedente asilo. E’ una barriera che ci separa da noi stessi e dagli altri, ma lo specchio è rotto, forse perché non riusciremo mai a riconoscerci nell’altro, oppure perché si è aperto un varco, chi può saperlo.

Chi di noi almeno una volta non si è sentito come un “No fixed abode”? In attesa, alla ricerca di un ruolo nel mondo, alla merce del flusso vitale o degli altri. E come i protagonisti di queste foto, in ognuno di noi vive quel coraggio, quella scintilla, quel barlume di speranza, che ci può far decidere che vale sempre la pena reagire anche quando è difficile, che ci spinge ad affrontare la vita con tutti i rischi che questa comporta, che ci fa prendere il passato, il presente ed il futuro nelle nostre mani.

Così in queste foto, che sembrano raccontarci qualcosa di molto estraneo e distante, c’è una forte capacità empatica che ci fa sentire vicino a chi usualmente viene dipinto come lontanissimo da noi. Siamo così simili noi esseri umani, “tutti su di una stessa barca”, forse oggi potremmo dire “su di uno stesso barcone”. Tutti a naufragare, a navigare, a nuotare, chi con forza, chi annaspando, chi lietamente, chi con difficoltà, chi con naturalezza o con dolcezza… in questo mare, ma se ci riconosciamo simili e vicini forse sarà più semplice il nostro nuoto. Forse potrà essere più facile per tutti prenderci per mano ed aiutandoci emergere insieme, senza annegarci vicendevolmente, ma sostenendoci, perché il viaggio è più bello quando è fatto insieme.