Recensione del romanzo “Un paese senza nome” di Emilia Merenda

Presentazione oggi 28 Ottobre ore 18.00 a Capaci presso la Biblioteca Francesca Morvillo in Piazza Madrice, 20. Con Emilia Merenda e Pippo Oddo.

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Di Evelin Costa

“Un paese senza nome” è un romanzo il cui titolo racchiude in sé il significato più profondo di tutta la narrazione. Fin dall’inizio della lettura, in un libro che racconta viaggi, ci si domanda quale sia questo misterioso luogo-non luogo che il protagonista cercherà per tutta la vita. La ricerca di un paese senza nome porterà il Nonno Peppino ad intraprendere un lungo “cammino”, per terra e soprattutto per mare, gli farà raggiungere le terre ghiacciate del Polo Nord, il luogo più freddo e lontano, forse anche questo gelo è una metafora importante per la vita di un uomo alla ricerca disperata di un atavico calore umano sempre a lui negato. Quel paese forse lo troverà o non lo scorgerà mai, si scoprirà solo alla fine del libro, la ricerca tuttavia gli darà consapevolezza di sé stesso e delle proprie radici. Costruirà altri rifugi che saranno per lui paese, approdo, certezza e forza per i suoi cari.

C’è nel romanzo un paese reale da cui inizia tutto il racconto, quello in cui è nato e da cui inizia tutto, descritto dall’autrice, grazie ai racconti dettagliati del nonno, come era alla fine dell’ottocento: il corso, la Matrice, la tabaccheria dei bisnonni, la povertà, gli antichi mestieri, il silenzio. Tutto nella Capaci ottocentesca sembra sempre uguale ed immutabile. Poi c’è la spiaggia con le dune di sabbia da superare per arrivare al mare che è emblema di libertà, di un’apertura mentale contrapposta alla chiusura della sua vita familiare. Dice Peppino: “Per me il mare non era un ostacolo, ma l’apertura verso nuovi orizzonti, quasi un miracolo della natura. Ero certo che oltre quella linea immaginaria, c’era la possibilità di conoscere nuove terre e altra gente”.

Da Capaci e dall’insofferenza alla sensazione di immobilità si dipanerà tutta la storia che è un lungo racconto che il nonno regala alla sua nipotina, fatto di immagini nitide, di profumi, di speranze, di dolori, di lotta e di voglia di conoscenza.

Nel paese c’era la Stazione, nient’altro che un piccolo casello ferroviario dove il treno faceva fermata, quel treno condurrà il protagonista nel suo percorso di crescita fisica ed interiore.

La prima tappa del lungo viaggio sarà Palermo, il 1896 è una data che rappresenterà l’inizio di una nuova vita e la costruzione di un futuro diverso e di nuove radici. Dopo nove mesi di studi per diventare macchinista navale, Peppino si imbarcherà in una nave torpediniera, un viaggio durato poco più di sei anni, da cui dopo dubbi e riflessioni farà ritorno per riabbracciare ed intraprendere una vita insieme a Teresa, una ragazza palermitana con cui creerà la sua nuova famiglia e che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Prima però arriverà fino in Olanda, New York, Oslo e poi, imbarcatosi sulla Stella Polare del Duca degli Abruzzi intraprenderà la più grande avventura della sua vita, raggiungendo il Polo Nord.

Il successivo ritorno alle origini, alla terra natia, la Sicilia, ed anche a Capaci, sarà sempre sofferto ma più consapevole. La nuova vita sarà piena di personaggi, incontri ed eventi sia intimi che familiari, ma anche avvenimenti storici come il terremoto di Messina. Soprattutto il ritorno sarà metafora della realizzazione di una vita autentica fatta di sentimenti veri e profondi e di un’accettazione della propria storia personale, delle proprie origini e del rapporto complicato con la madre. Il perdono di sé stesso e di chi con silenzi, muri ed ostacoli insormontabili lo aveva reso infelice negli anni, rappresenteranno per il protagonista l’unica possibilità di riscatto.

“Un paese senza nome” racconta uno scorcio di Sicilia e di mondo, è una storia di formazione, c’è una grande apertura alla conoscenza e all’incontro con culture diverse, c’è il passato, il presente ed anche il futuro. Il linguaggio è semplice ed emotivo, affronta con delicatezza e garbo sentimenti come l’amore e la sua negazione. Riesce a combinare ironia, curiosità, immaginazione e offre un’idea di cultura basata sulla valorizzazione delle tradizioni, ma al contempo sulla ricchezza data dalla conoscenza dell’altro, solo relazionandosi con un Noi universale, l’individuo può accrescere la propria unicità ed essere parte attiva di un futuro comunitario che si tramandi alle nuove generazioni.

Cara ragazza e care noi donne…

Cara ragazza, non scrivo il tuo nome perché tutti oggi ti stanno radiografando la vita ed è già sufficiente. Cara ragazza e care noi donne, c’è chi dice che la questione di genere non esiste più, che c’è la parità, che le ragazze sono libere tanto quanto i ragazzi, che non serve più parlare di femminismo. Sono spesso le stesse donne a dirlo, illuse da una libertà apparente. E’ davvero così? Siamo libere? Allora perché esistono branchi di uomini che violentano in gruppo una donna? Perché esistono mariti che uccidono la moglie che li lascia? Perché le donne devono stare attente a uscire la sera? Perché se una ragazza è fragile, ribelle, complessa, confusa o incazzata con la vita sembra quasi scontato che ci siano dei maschi a sbucare dal nulla per violarne il corpo e l’anima? Perché se sono bianchi e adolescenti, lei, anche se è minorenne non viene definita una bambina ma invece è descritta come una che se l’è cercata? Non è una che se l’è cercata, non è una bambina, non è una tossica e non è una che dovrebbe stare chiusa dentro casa. Ogni donna è una donna che qualunque scelta faccia, giusta o sbagliata, non deve essere toccata da nessun uomo senza la sua volontà. Poi si possono fare le analisi psicologiche che tanto piacciono in tv, sulla famiglia, sui genitori assenti, sul problema della droga e dell’alcol, sugli adolescenti di oggi, sugli spacciatori immigrati e su quelli italiani. Poi ci sarà chi ne approfitterà e strumentalizzerà il caso solo per scopi politici. Si possono fare i processi pubblici, si possono scrivere tanti commenti di odio, ma io mi domando quando si rifletterà sul fatto che una donna non debba avere più paura del genere maschile. Quando finirà la logica del possesso che fa vedere il corpo femminile di proprietà degli uomini, che siano mariti, ex fidanzati, padri, fratelli, compagni di classe, amici, spacciatori?
Che le donne siano libere e solidali tra loro, che possano urlare la loro libertà, la loro ribellione. Che la ribellione non sia annichilimento o annullamento tramite sostanze stupefacenti o alcool, ma che sia lotta, riscatto, impegno, forza, solidarietà, amicizia. Amiche donne alziamo la testa, facciamo rete tra noi, uniamoci per essere più libere di uscire, di vivere, di ridere, di trovare una energia nuova nella nostra fragilità. Stiamo insieme e supportiamoci, madri, figlie, sorelle, amiche, coinvolgendo gli uomini che credono che le donne debbano essere libere veramente e complessivamente, c’è ancora bisogno di fare molta strada insieme!

Evelin Costa

“Sulla mia pelle”, sulla pelle degli ultimi e di chi lotta per loro. In ricordo di Stefano Cucchi.

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Giorno 11 ottobre 2018 vediamo in gruppo il film “Sulla mia pelle”, di Alessio Cremonini, dedicato alla vicenda di Stefano Cucchi, trentunenne romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Pertini di Roma.

Coincidenza vuole che la data in cui decidiamo di vedere questo film rimarrà nella storia di questa dolorosa vicenda. Durante la giornata, infatti, arriva la notizia della grande ed inaspettata svolta avvenuta all’udienza del processo nel quale sono imputati cinque carabinieri per la morte di Stefano Cucchi.  Uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, rompendo un muro di silenzio che aveva segnato il caso per tutti questi anni, ammette il pestaggio e accusa i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo della violenta aggressione nei confronti del giovane. In questo momento il pensiero non può non tornare a Stefano e a quello che ha subito, ma anche alla sua famiglia ed in particolare ad Ilaria Cucchi, la sorella, che senza tregua da quasi dieci anni si batte per la verità e giustizia.

Una coincidenza che ha reso ancora più toccante la visione di un film che per tutto il tempo si focalizza sulla sofferenza e la tragica odissea di un ragazzo stritolato da un sistema solo all’apparenza democratico, ma nella sua concretezza vendicativo, crudele, violento, indifferente, lento, magmatico e monolitico nei mille gangli di una burocrazia che più che tutelare sembra voler imbrigliare e punire.

Stefano Cucchi non è un martire perché non è un Santo, ma subisce un martirio, non è un eroe, non è l’eroe di nessuno, anzi è un antieroe, rappresenta la parte più fragile e oscura della società, è vittima di se stesso e di una serie di ingranaggi sistemici che schiacciano senza pietà e senza sconti chi è debole e incapace di sorreggersi, chi fa scelte sbagliate, chi non riesce a salvarsi. La domanda che implicitamente percorre tutto il film è se chi è fallace, delinquente, debole, meriti per questo la tortura o la morte, se si può morire tragicamente e in solitudine all’interno delle mura di uno Stato, che ipocritamente afferma di voler riabilitare chi sbaglia e che invece si rende colpevole ed incapace di dare risposte alle proprie inadeguatezze.

Sulla mia pelle” è un film che non specula sulla violenza e sul dolore, non celebra e non assolve nessuno, non colpevolizza e non crea santini. Tutti i protagonisti del film sembrano anelli deboli di un sistema sbagliato, nessuno ne esce positivamente, nessuno è vincitore. E’ una storia di perdenti, di persone vere, umane anche nella miseria umana e addirittura nella disumanità. E’ la storia di un ragazzo che non riesce a sopravvivere a questa società, si rifugia nella droga, delinque e dopo tanti tentativi di riabilitarsi continua a non farcela, è la storia di uno di tanti, di quelli che soccombono, perché non sempre nella vita c’è il lieto fine, anzi forse non c’è quasi mai. E’ la storia di una famiglia per bene, una famiglia stanca ed impotente che non sa più sostenere questo figlio caduto in un tunnel, che ogni volta che si rialza nel suo metaforico ring crolla subito dopo con tutto il suo peso. Dopo anni di tentativi e speranze disilluse, al momento dell’arresto prevale lo sconforto, la delusione, l’amarezza, la sofferenza, l’inadeguatezza. Il film mostra l’arrendevolezza di questi genitori di fronte agli ostacoli di una burocrazia che non è a misura umana; la madre, come tante mamme nella stessa condizione, si domanda se una notte in carcere potrebbe forse dare una lezione al figlio. Ha fiducia in uno Stato che poi si rivolterà contro di loro.

Il voler rispettare le regole può frenare la capacità di analizzarle per capirne l’essenza che non sempre è positiva. Non ci insegnano a pensare, a ribellarci, a disobbedire alle regole disumane, a favore di una legge universale che tutela l’essere umano, siamo abituati ad accettare ciò che è imposto senza ragionare e ad abbassare la testa.

 La fiducia nello Stato porterà questa famiglia a seguire le regole di un sistema che complica la vita, che sembra spingerli ad adattarsi, a combattere poco, ma come non capirli? Chi ne è capace e chi può farlo? Lo Stato è democratico, ma complicato e può fare paura.

E poi nel film c’è lo Stato, lo Stato è rappresentato da diverse persone. I Carabinieri violenti e crudeli, quelli che probabilmente hanno devastato il corpo e la mente di Stefano, quelli che, secondo la testimonianza del loro collega, lo hanno massacrato con una violenza inaudita. Braccia armate di uno Stato punitivo? Vittime essi stessi dell’ essere “carne da macello” buttata nel peggio della società per miseri stipendi e con la tentazione di abbrutirsi? Bulli crudeli che agiscono indipendentemente dal sistema o frutti di un sistema sbagliato nelle sue viscere? Non c’è risposta. Non c’è giustificazione. Si vede solo che la violenza è ingiusta, qualunque sia la colpa commessa.

Ci sono poi le guardie carcerarie, quelle che ogni giorno condividono la reclusione. Il carcere è brutto in sé, il carcere non salva nessuno ed è punitivo anche per chi ci lavora. Ci sono gli altri carabinieri quelli che cercano di aiutare il ragazzo, ma si stancano subito di farlo, perché non c’è tempo per lui, non c’è tempo per gli ultimi. C’è una Giudice frettolosa, l’avvocato demotivato, ci sono gli infermieri ed i medici, tutti sembrano capire poco la gravità della situazione, probabilmente perché l’abitudine li ha anestetizzati ed immunizzati al dolore, forse disumani, ma anche umani nella loro indifferenza.

E poi c’è Stefano che non si fa aiutare, non permette a nessuno di salvarlo, in una sterile e flebile protesta contro quello che gli sta accadendo, nella totale inconsapevolezza di essere a rischio della propria vita, paradossalmente pensa al futuro, teme ripercussioni da parte dei carabinieri che pensa di incontrare di nuovo per le strade delinquenziali della sua città, pensa che a casa ha altra droga e teme di essere scoperto e di avere altre conseguenze, ragiona con la mente obnubilata dalla droga, dal dolore e da una strana lotta per la sopravvivenza che lo porterà invece ad abbandonarsi alla morte. Stefano ha sbagliato, Stefano non si fa aiutare, Stefano non sa salvarsi, Stefano ha voglia di mandare a quel paese tutti, dottori, polizia, guardie, parenti, non si rende simpatico agli altri e non sa usare né il pietismo, né l’empatia per avvicinare chi entra in contatto con lui, non si fida di nessuno, caccia via tutti, ma merita di morire per questo?

E’ una storia di difficoltà, dolore, indifferenza, solitudine. Stefano è solo e mentre guardiamo il film tutti ci sentiamo soli, chiusi in gabbia, abbandonati da tutto.

Se la domanda è: “è possibile entrare vivi in un carcere che è un luogo dello Stato ed uscirne morti dopo una settimana”, a questa domanda si può rispondere con altre domande: “Il carcere è un luogo dove è tutelata la vita? Esiste la tortura di Stato? Il carcere può essere umano? Lo Stato come considera chi è ultimo tra gli ultimi?”.

Ilaria Cucchi, La sorella di Stefano, ha intrapreso una battaglia legale in difesa di suo fratello “morto per Stato”, in cerca della verità, è una lotta importante nel nome di tantissime persone che come Stefano muoiono nelle carceri ogni giorno, da suicida o da suicidati, di tanti che vengono picchiati dentro le caserme in quel sottile limite tra regole e non regole.

Ilaria Cucchi per questo è stata criticata, accusata, sviscerata in ogni aspetto della sua vita, “bullizzata” anche dalla politica, ma è stata sostenuta da quelli che non hanno la forza o le possibilità di lottare in casi simili e da lei si sono sentiti rappresentati e da chi si impegna nella difesa dei diritti umani.

Il caso ha visto depistaggi e omertà, ma senza sosta questa donna ha continuato la sua battaglia legale e con le istituzioni, anche se queste non sono state sempre buone con lei, con la sua famiglia e ancor prima con suo fratello. Adesso, in seguito alla confessione di uno degli imputati, saranno molti a doversi scusare.

Mentre il processo dovrà seguire il suo corso, bisognerebbe portare avanti una battaglia collettiva sulla disumanità che si vive nelle carceri, che più che riabilitare ricreano o acuiscono le condizioni per delinquere anche dopo aver scontato la pena.

Sentiamo con troppa facilità inneggiare alle carceri, quando le carceri sono per essa stessa natura un non luogo dove si interrompe l’umanità. Dovremmo invece riflettere su altre alternative alla reclusione, perchè una società civile e a misura umana dovrebbe essere dalla parte degli ultimi, sostenere e non solo punire chi cade.

Difficile restare indifferenti a “Sulla mia pelle”, lascia attoniti, scossi e doloranti. Magistrale l’interpretazione di Alessandro Borghi, credibile ed autentico in ogni sequenza di un film sincero e capace di suscitare più dubbi che risposte.

Ci si augura che venga fatta verità e giustizia e che in una società civile e umana non ci siano più le condizioni che possano far accadere un episodio come questo.

Evelin Costa

Recensione di Malavita, donne tra oppressione e riscatto

MALAVITA di Giankarim De Caro edito da Navarra Editore è un romanzo avvincente, toccante, coinvolgente. Il linguaggio diretto e privo di orpelli lo rende scorrevole ed autentico, ne emerge uno sguardo dell’autore essenziale, empatico, ma mai invadente.

Le protagoniste sono donne non edulcorate, non eroine, non donne pure, idealizzate, non madri amorevoli protettrici del focolare domestico. Sono donne intere, piene di contraddizioni e miserie, limiti e sbagli, provate dalla vita, investite da un destino quasi inevitabile causato da una condizione di povertà e da un degrado materiale e valoriale da cui è difficile, quasi impossibile strapparsi fuori. Non sono però semplici vittime, sono oppresse, ma non arrendevoli, cercano di afferrare la propria amara vita, non tanto per cambiarla, quanto per esserne protagoniste, nel bene e nel male. Anche se non possono decidere il proprio destino e anche se condizionate dal contesto storico e sociale in cui vivono fanno scelte libere, schiacciate e calpestate continuano a resistere. Quando, ad esempio, cercano di proteggere il proprio nucleo familiare lo fanno senza risparmiarsi, all’occhio di tanti in modo riprovevole, cedendo al compromesso, ma lo fanno senza cercare consensi popolari, senza ipocrisie, causando dolore ai propri cari, ma la vita non è mai clemente con loro, nulla viene risparmiato, pagano tutto a caro prezzo, la vita è sempre crudele e tiranna.

Le protagoniste del romanzo, la mamma Lucia e le figlie Provvidenza, Pipina e Grazia sono prostitute, Lucia si ritrova in questa condizione quasi come per una condanna che la vita le ha inferto da innocente, non c’è possibilità di scampo per lei, il suo ruolo di subalterna, di donna bambina indigente, di figlia di serva, la pone in balia del potere maschile, la rende sola, vittima sacrificale della bramosia della nobiltà. Una classe, quella dei nobili, che ritiene di poter disporre di tutto, anche di un giovane corpo femminile, perché le donne, per lo più povere sono niente in quel sistema: prese, vendute e cedute a piacimento. Anche gli uomini del popolo non sono da meno, perché la violenza del genere maschile su quello femminile supera le differenze sociali. Le figlie di Lucia soccomberanno al medesimo destino. Chi costretta, chi accettando i benefici della propria sorte.

La prostituzione nel romanzo è una condizione da cui non ci si può mai affrancare “chi è pulla (prostituta) lo sarà per sempre”.

Queste donne non sono mai trattate dall’autore con moralismo, anche quando la malattia, il disagio psicologico, la costrizione, la violenza, il compromesso ne annulleranno l’integrità intima e fisica, non sono mai giudicate. Si entra in contatto con loro, senza giustificazioni e senza colpevolizzazioni, ascoltandone la voce, le parole dette e anche quelle che non possono essere pronunziate.

Palermo emerge in tutta la sua opulenza ed il suo degrado. C’è un costante dialogo tra i bassi fondi e i luoghi della nobiltà, una nobiltà che è immorale e bassa più della società popolana, maltrattata, povera e degradata.

L’anomala saga familiare ha come sfondo gli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la guerra e il dopo guerra. Anni di grande sofferenza, poveri e senza riscatto, La guerra è l’apoteosi del dolore, metafora di tutta una storia che parla di distruzione. I bombardamenti annullano la speranza di un vero riscatto ed il popolo ignorante e devastato è pronto anche ad inneggiare il proprio carnefice per un tozzo di pane e cioccolato. Cambia solo il nome dell’oppressore, ma non c’è una reale liberazione per un popolo da sempre vessato, abituato a cedere, a soccombere, ad accettare il compromesso in cambio della salvezza. La guerra non rappresenta una catarsi e la libertà non si impone con le bombe. La guerra è solo morte fisica e spirituale e da essa non potrà mai nascere una reale redenzione. E quindi ci si domanda, alla fine di tutto, se c’è e ci sarà mai la possibilità di un vero affrancamento per i poveri, per le donne, per gli ultimi, per chi soffre e su quali basi è stato costruito il nostro futuro.

Evelin Costa

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I DIRITTI NEGATI: Concorso Fotografico “GUIDO ORLANDO” 2018 – PREMIO FOTOGRAFICO PEPPINO IMPASTATO

 

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Anche quest’anno l’associazione AsaDin, in collaborazione con Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato e con il sostegno ideale dell’Associazione Peppino Impastato, di Witness Journal e della famiglia Orlando, bandisce il Concorso fotografico Guido Orlando – PREMIO FOTOGRAFICO PEPPINO IMPASTATO.

Lo scorso anno il concorso ha avuto un grande successo, sono arrivate più di 100 foto che sono state valutate dalla Giuria composta dal Fotoreporter Tano D’Amico, dal Fotografo Francesco Seggio e dal Pittore e Fotografo Pino Manzella. Le dieci foto selezionate sono ancora esposte all’interno del bene confiscato Ex Casa Badalamenti.

Sono aperte le iscrizioni, la partecipazione è gratuita, la data di scadenza per inviare le foto è il 22 Aprile 2018.

La giuria composta da Tano D’Amico (Presidente), Francesco Seggio e Pino Manzella è stata riconfermata.

La premiazione avverrà la sera del 7 Maggio a Cinisi alla presenza della giuria di qualità.

Anche quest’anno le foto selezionate saranno esposte nella Mostra I Diritti Negati presso l’Ex Casa Badalamenti, a cento passi da Casa Memoria, durante le giornate del 9 Maggio a Cinisi (PA), in occasione del Quarantesimo Anniversario dell’assassinio mafioso di Peppino, migliaia di visitatori avranno l’opportunità di visitarla. Verranno inoltre pubblicate sulla rivista Witness Journal, sostenitrice del concorso e sul sito di Casa Memoria.

Il concorso fotografico ha come tema i “DIRITTI NEGATI” lo stesso tema su cui sono incentrate tutte le iniziative del 9 maggio 2018.

“I Diritti Negati sono quei diritti umani tolti ai più deboli di tutto il mondo costretti a subire violenze, a vivere nella povertà, nel degrado e nelle malattie, a vivere gli orrori della guerra, la fuga dal pericolo, i viaggi della speranza, alla fine dei quali si trovano spesso ulteriori difficoltà, sofferenze ed emarginazione. I Diritti Negati sono quelli di una società che toglie la possibilità di esprimere se stessi, le proprie scelte, le proprie attitudini, la libertà. Vittime sia gli adulti, ma soprattutto i bambini. I Diritti Negati sono quelli elementari che riguardano la stessa esistenza, il rispetto della dignità e della persona. Riguardano la negazione del lavoro, della salute, dell’istruzione, della possibilità di svolgere una vita in autonomia, ma le negazioni sono anche culturali, quando è ostacolata la libera espressione di sé, quando esistono discriminazioni per etnia, religione, scelte sessuali, scelte ideali, etc. La fotografia può avere un ruolo culturale di denuncia, di informazione, di comunicazione, di sensibilizzazione, di strumento di sostegno, di lotta e di verità.”

Guido Orlando, a cui l’associazione AsaDin dedica il concorso, è stato uno dei compagni di Peppino Impastato, tra i fondatori di Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, dell’Associazione fotografica Asadin e di altre realtà aggregative, scomparso prematuramente nel 2012. Guido Orlando quando era ancora in vita, aveva contribuito ad ideare questo premio fotografico. Durante la sua vita ha fatto della fotografia la sua forma massima di espressione. Con la fotografia ha documentato, conservandone la memoria, le attività politiche e culturali di Peppino e dei suoi compagni. Presente in tante iniziative, sempre con la sua inseparabile macchina fotografica. Nelle sue diverse pubblicazioni si è occupato di lotte per i diritti negati, ambiente, natura, dell’ecosistema siciliano e del rapporto tra esseri umani e paesaggio, grazie ai tantissimi reportage svolti durante i suoi viaggi in giro per il mondo, facendo della fotografia una professione, ma anche una forma di impegno artistico e sociale.

Il concorso Guido Orlando si propone di promuovere la fotografia sociale, che racconta la realtà osservandola con uno sguardo critico e sempre alla ricerca della verità. Una fotografia che ha come tema i conflitti sociali, il disagio e le storie quotidiane, e come protagonisti i più deboli, osservati focalizzando l’attenzione sulla dignità e la bellezza umana. Le immagini sono il racconto del presente ed il simbolo della speranza e del cambiamento.

Per info associazioneasadin@libero.it

Per partecipare e scaricare il bando clicca qui 

https://www.facebook.com/concorsofotograficoguidoorlando/

Mostra di Giovanni Panarese Kromumory 2018

Mostra visitabile fino all’1 Marzo 2018, tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00  presso il Margaret Cafè, in Via V. Madonia 93 a Terrasini (PA).

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Testo di Evelin Costa

“Kromumory 2018 è un percorso pittorico in cui l’artista entra in connessione con l’osservatore, non solo per comunicargli il proprio stato interiore ed il proprio umore, ma per suscitarne le rispettive emozioni innate, inconsce e per stimolarne l’immaginazione attraverso figure indefinite, ma che ad un livello mentale, oltre ciò che percepiscono gli organi di senso, divengono limpide e perfette. Un collegamento, quello che lega l’autore e il fruitore, che ben presto diventa un gioco reciproco di scoperte, nascondimenti, ricerche e possibilità.

Giovanni Panarese, con le sue esplosioni cromatiche, cerca di allontanarsi dal figurativo senza farlo del tutto, come se le figure nascessero autonomamente dai suoi colpi netti di spatola e lui volesse respingerle, imprigionarle e paradossalmente fermandole le rende epiche, emblematiche, liriche.

Tra colori caldi, luci, ombre, tagli, squarci di colore emergono grafie nitide che reinterpretano in chiave informale ciò che potrebbe essere espresso tramite un descrittivismo figurativo. Il turbinio di colori non prende il sopravvento e non toglie mai posto all’ armonia cromatica e ad un equilibrio che rende l’astratto chiaro, comprensibile e mai caotico.

Emergono paesaggi galattici e terrestri. Un canneto si staglia tra il cielo ed il letto di un fiume, tra due sponde selvagge scorre lento un corso d’acqua o magma, palme e vegetazioni tropicali si intrecciano e si arrampicano verso l’alto. Uscendo quasi dalle viscere del quadro, dalla profondità della pittura materica e densa, si distaccano personaggi che mai sono inquietanti, di sovente ironici, sempre positivi, suscitano pensieri gioiosi, perché Giovanni Panarese non dipinge mostri interiori, ma esorcizza le sofferenze facendo affiorare il sorriso. I suoi personaggi, sia che possano essere interpretati come insetti, crostacei, cavallucci marini, unicorni, rettili, galli o come icari volanti, equilibristi, angeli terrestri, sono sempre vivaci, gentili, simpatici, forse combattenti, come samurai giapponesi o guerrieri masai, ma quando lottano lo fanno per il proprio riscatto personale, per la difesa della propria vita e mai contro gli altri.

Una pittura in costante divenire, che si compone di tasselli privi di confini, che nasce per dar sfogo ad un umore momentaneo, procede come in uno stato di trance, diviene magmatica e dirompente, tumultuosa ed incessante e si conclude quando ogni opera ha assunto una vita autonoma, libera e benefica. “

Giovanni Panarese, nato a Palermo nel 1965, ha frequentato il Liceo Artistico. Fin da bambino ha vissuto tra le tele ed i colori che si trovavano nello studio pittorico del nonno materno, appassionandosi lui stesso alla pittura, ma allontanandosi dalla pittura classica e formale, alla ricerca di un percorso personale nell’arte informale. Dipinge con colori acrilici su tela e disegna con colori, penne, china e matite su ogni superficie che glielo permetta. Tra le sue mostre, la personale realizzata a Palermo nel 2001 presso il centro polivalente Agricantus, inserita nel progetto ccp vision sponsorizzato dalla Provincia Regionale di Palermo e a Gela nel 2007 la mostra intitolata “Quel che resta…” con Aaron Wadia, nell’ambito di un progetto per la promozione e diffusione della Cultura Mediterranea.

Clicca per visualizzare il Video della serata

Mostra di pittura di Evelin Costa e Pino Manzella “IL LUNGO VIAGGIO …ed altre fantasticherie” a Terrasini

Domenica 3 Dicembre 2017 alle ore 18.00 presso il Margaret Cafè, in Via V. Madonia 93 a Terrasini (PA), sarà inaugurata la mostra di pittura di Evelin Costa e Pino Manzella “IL LUNGO VIAGGIO …ed altre fantasticherie”. La mostra promossa da Isola Viva e Associazione Asadin, con testo di presentazione di Evelin Costa sarà visitabile fino all’11 Gennaio 2018, tutti i giorni dalle 9.00 alle 23.00.

IL LUNGO VIAGGIO
…ed altre fantasticherie
di Evelin Costa
Un immaginario fatto di sogni, visioni poetiche, libri fiabeschi, desideri, aquiloni, mongolfiere, mondi vicini e lontani, da raggiungere o a cui anelare solo con la fantasia. E’ fuga dalla realtà per salvarsi o liberarsi, per fuggire dal dolore, dalle inquietudini dell’oggi, dalla convenzionalità o semplicemente per ritrovare se stessi… perdendosi un po’.
Il lungo viaggio è metafora di vita, può essere lento o frenetico, il tempo è relativo perché c’è un tempo individuale di cui nessuno conosce la durata e c’è un tempo collettivo e universale che è così grande da sembrarci incalcolabile. Il lungo viaggio percorre strade tortuose, in salita o in discesa. Alcune volte è un viaggio solo mentale, basta una barchetta di carta in una tinozza per farci raggiungere universi sconosciuti e scoprire nuovi approdi, trovare foreste animate, fiori volanti, stelle cadenti, animali strani, spaventosi o amorevoli, fioche albe, vortici di vento che trascinano foglie scolorite, castelli incantati, casette di marzapane, luci improvvise e bui profondi, uomini feroci e abbracci di sconosciuti.
E’ sufficiente sfogliare la pagina di un libro o osservare un quadro su una parete per volteggiare insieme ad innamorati volanti, per girare il mondo su un dirigibile, per vedere città galleggianti o abissi profondi, per inseguire conigli bianchi o catturare pesci giganti, per andare a caccia di fuochi fatui, per vivere sugli alberi, per trovarsi su zattere di pietra, per sentire il battito del cuore di un colpevole o l’amore di un santo, per indossare cappelli senza teste, consultare orologi senza tempo e planare su cieli ondulati. Bisogna solo far tornare quel bambino occultato in ognuno di noi, quel bambino dimenticato che abbiamo abbandonato sul banco di una scuola, che abbiamo lasciato crescere al primo dolore di adulti, che abbiamo chiuso in un nascondiglio con catenacci ormai arrugginiti, quel bambino che ci faceva tremare per la paura o lacrimare per la frustrazione, ma che al contempo sapeva sognare e sperare. L’arte è un piccolo bagliore di infanzia che non si è mai spenta, è ciò che permette di intraprendere il lungo viaggio senza invecchiare, anche se il volto è ormai segnato da rughe ed incorniciato da capelli bianchi, è un respiro profondo quando si è immersi nella solitudine, è il sogno quando la vita non permette di dimenticare, è voce e silenzio, è lotta e meditazione, è vita reale ed irreale.
il lungo viaggio ed altre ok

Il racconto di “U MANI FEST”, festa interculturale a cura di Cinisi Solidale

foto di gruppo

Comunicato di Cinisi Solidale: Il racconto della festa

Il 15 ottobre 2017 si è svolta a Cinisi “U Mani Fest”, la Festa-Incontro interculturale organizzata da Cinisi Solidale, un gruppo che mette insieme Associazione Officina Rigenerazione, Associazione LabNovecento45, Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato ONLUS, Libera-mente società cooperativa sociale, Gruppo 8 Marzo, Azione Cattolica Parrocchia Ecce Homo, Gruppo incontrarsi è cultura, Associazione culturale Peppino Impastato Onlus, Clan del Gruppo Scout Cinisi 1, Associazione Culturale Asadin, tutte associazioni di volontariato impegnate nel sociale, che il 3 Ottobre si sono confrontate in un’assemblea ed hanno deciso di intraprendere un percorso comune per dare voce ad una Cinisi che mette al centro la solidarietà, l’interculturalità, l’accoglienza.

La festa è stata solo una tappa delle iniziative finora promosse da Cinisi Solidale, che già nei giorni precedenti ha fatto sentire la sua voce apartitica, propositiva e nonviolenta, tramite un primo comunicato/manifesto fondativo, successivamente con alcuni striscioni che hanno colorato Cinisi con frasi per l’interculturalità e l’accoglienza e poi con un video spot dove tanti volti si sono fatti protagonisti di una campagna antirazzista.
Lo scopo del gruppo, che non ha nessuno sponsor politico o riferimento partitico, ma che nasce solo dall’impegno volontario di diverse persone già da anni attive nel sociale, è quello di promuovere l’integrazione e lo scambio culturale con diverse realtà immigrate presenti nel territorio, ma soprattutto quello di intraprendere un percorso di supporto nei confronti di tutti i settori deboli della società, senza distinzioni, sia italiani che immigrati.

Sono tanti i percorsi che le associazioni si propongono di portare avanti, ognuna secondo le proprie peculiarità, come è stato già fatto in parte in questi anni tramite laboratori, feste, corsi etc. Adesso coordinandosi nel gruppo Cinisi Solidale questo lavoro probabilmente potrà essere più organizzato ed efficace. L’attenzione è rivolta ai bambini per offrire un supporto extrascolastico, sia ricreativo che di doposcuola, agli adolescenti che vivono un momento di difficoltà in una società che non valorizza propensioni e talenti, alle famiglie che necessitano di un sostegno a causa della crisi economica, che rischia di creare anche comprensibili conflitti sociali, soprattutto quando ci si ritrova a rapportarsi a persone che provengono da paesi poveri e in guerra, senza che ci sia stato un precedente lavoro di preparazione, conoscenza e corretta informazione, che renda la convivenza una risorsa e non un problema.

La festa, nata per favorire la conoscenza tra associazioni e realtà immigrate, per rompere muri, diffidenze e separazioni è stata un grande successo. Centocinquanta circa le presenze, tra Cinisensi, Terrasinesi, Palermitani, Bangaldeshi, Ivoriani, Gambiani, Nigeriani, Argentini etc. Un momento di aggregazione dove lo scambio tra cibi e la musica sono stati i principali veicoli per incontrarsi e fare amicizia. Dalle dodici fino alle sei del pomeriggio ci si è ritrovati insieme a ballare, cantare, ridere, parlare e gustare tante pietanze, dal riso speziato indiano, a quello piccante africano, la caponata nostrana dal sapore agrodolce ed inconfondibile, la pasta al forno, la cassata e i dolci del Bangladesh profumati di cocco e cannella. Un abbraccio collettivo dove tutti si sono ritrovati. I bambini italiani, bengalesi, africani hanno giocato tra loro senza alcuna diffidenza, i ritmi africani si sono fusi alla tarantella siciliana e alla taranta pugliese, i sorrisi di tutti hanno fatto sperare nella possibilità di costruire percorsi di solidarietà e scambio tra le culture. Un clima costante di allegria e soprattutto di serenità, perché è con la serenità che si possono affrontare le difficoltà, senza riscaldare gli animi, ma rimboccandosi le maniche e lavorando concretamente per cambiare le cose e supportare chi ne ha bisogno, italiani e stranieri.
E’ stata per tutti i partecipanti una domenica emozionante ed indimenticabile, un nuovo inizio su cui riflettere e impegnarsi. Tanti gli sguardi lucidi ed i sorrisi con la speranza che sia possibile sognare un mondo libero e migliore dove rialzare la testa, tutti insieme.

Si ringraziano tutte le altre associazioni intervenute, il Quinto Canto, le/i cittadini italiani e stranieri presenti, i responsabili e operatori delle Comunità alloggio di Cinisi che hanno accompagnato i ragazzi e contribuito alla realizzazione della festa, tutti coloro che hanno partecipato con un piatto, con un ballo, con la presenza e con i tanti sorrisi.

Foto di Nicola Palazzolo